Articolo a cura di Giannicola Rocca, Presidente Commissione crisi, ristrutturazione e risanamento ODCEC Milano.
Lo scorso ottobre la Lega Serie A, dopo aver cercato per cinque mesi un operatore che potesse garantire cifre più alte rispetto alle offerte di DAZN e Sky, ha accettato le proposte provenienti dalle due emittenti per la cessione dei diritti tv per la trasmissione della partite della Serie A alla cifra di circa 4,5 miliardi di euro per cinque anni.
I ricavi da cessione dei diritti TV per i campionati dal 2024 al 2029 ammonteranno così a 900 milioni di euro per ogni stagione, ripartiti tra i club della massima serie secondo un criterio complesso (indicato dalla politica attraverso la cosiddetta Legge Melandri) che ha previsto di distribuire il 50 % in parti eguali e il restante 50% secondo un meccanismo di suddivisione con parametri riferito al numero di ascolti televisivi, agli spettatori paganti, ai risultati storici, ai risultati degli ultimi cinque anni, ed ai risultati della stagione appena terminata.
In ogni caso la squadra che avrà i maggiori incassi percepirà un importo inferiore a quello che riceverà la squadra della Premier League meno beneficiata dai ricavi da cessione dei diritti televisivi. Proprio la stessa Premier League che, nello stesso periodo, concludeva un accordo per la cessione dei diritti TV per sole quattro stagione ad una cifra di quasi 8 miliardi di euro.
I dirigenti della Lega Serie A si aspettavano offerte superiori a 1,15 miliardi di euro, come avevano fatte intendere sia il presidente della Lega Lorenzo Casini sia l’amministratore delegato Luigi De Siervo, all’indomani dell’assemblea dei club che lo scorso 23 maggio aveva approvato il bando di gara. Ma purtroppo la realtà ha avuto la prevalenza, certificando che il valore attrattivo della nostra Serie A è ben al di sotto della aspettative di chi lo gestisce.
Non è possibile quindi un’analisi sugli ultimi avvenimenti che hanno coinvolto lo sport nazionale più amato senza partire dalle trasformazioni che hanno investito il sistema calcio in Italia negli ultimi anni, trasformazioni che hanno avuto una portata di carattere storico, sociologico, culturale, politico ed infine economico. Il combinato disposto di questi fattori ha profondamente modificato lo scenario di riferimento e, purtroppo, non tutti gli attori del sistema hanno avuto la capacità e la voglia di adattarsi ai mutamenti in corso.
Prima di provare ad analizzare le cause del declino, occorre effettuare le stesse valutazioni e le stesse considerazioni che valgono per qualunque altro settore merceologico. Anche perché va ricordato che, come si tenterà di dimostrare nel prosieguo, anche il calcio è a tutti gli effetti un settore economico e produttivo.
I numeri del sistema calcio
Partiamo dai numeri per comprendere meglio quanto sia mutato lo scenario. Nel 1991 il fatturato complessivo delle società di calcio della Serie A era dell’equivalente di circa 375 milioni di euro mentre dopo dieci anni, nel 2001, era più che triplicato arrivando alle cifra di circa 1,2 miliardi di euro. Alla conclusione del decennio, sette delle squadre della Serie A, definite in gergo giornalistico come le “sette sorelle” riuscivano ed essere fra le prime 20 società europee per fatturato, come si evidenzia dal prospetto ricavato dal report “Deloitte & Touche/SportBusiness International Rich List for the 1999/2000 season”.
Il calcio italiano era leader del calcio Europeo, come dimostra la presenza della Serie A al vertice dei ranking Uefa e dei fatturati, le vittorie nelle competizioni delle squadre di club, i palloni d’oro vinti dai giocatori della militanti nella serie A, le partecipazioni di altissimo profilo della nazionale di calcio ai campionati europei e mondiali svolti in quegli anni.
Basti pensare che nel decennio che si è chiuso con la stagione 2000/01, il calcio italiano ha avuto per cinque anni una propria squadra in testa al Ranking Uefa, con la Juventus prima negli anni 1993, 1997, 1999 e 2000, ed il Milan primo nell’anno 1994, tante quante ne avevano avute messe insieme la Premier League (con lo United primo negli anni 1991 e 1992), l’Eredivisie olandese (l’Ajax nel 1995 e nel 1996), e la LIgue 1 (il PSG primo nell’anno 1998).
Lo scenario ante 2006
In principio, e fino all’inizio degli anni ’80, le società calcistiche furono costituite per consentire la pratica dei propri membri-associati, la forma costitutiva era quella degli Enti Associativi con scopi ricreativi ed in quanto tali potevano rientrare nell’ambito delle associazioni mutualistiche. Nel periodo considerato, ed il cui termine può ragionevolmente essere posto nel 1981 con l’emanazione della Legge 23 marzo 1981 n° 91, tutto sommato le società riuscivano ad essere gestite in una forma ancora ludico-sportiva, la dimensione economica del settore è ancora limitata, gli interessi economici da tutelare sono poco rilevanti e la organizzazione del club è di fatto inesistente prevalendo la forma del mecenatismo puro.
È questa la stagione di una serie di presidenti mecenati che hanno fatto la storia del calcio ed hanno riempito le cronache giornalistiche pro-tempore, in quel contesto storico e culturale il calcio era soprattutto una passione e non (ancora) uno strumento di business. Con l’introduzione della citata legge 91 del 1981 il legislatore ha cercato di porre rimedio a tutta una serie di problemi che si erano affacciati nel mondo del calcio, e, infatti, i principali contributi della legge sono stati:
- l’aver stabilito i criteri dello sport professionistico con la definizione della figura dello sportivo professionista,
- l’aver stabilito i requisiti essenziali per la costituzione, il controllo della gestione e la liquidazione delle società,
- l’aver determinato le caratteristiche e le competenze delle Federazioni.
Lo scopo dei club da sportivo-ludico si è trasformato in “non lucrativo” ,gli utili vanno reinvestiti, la dimensione economica del settore è diventata progressivamente maggiore e nella organizzazione dei club inizia a fare capolino un criterio economico di gestione orientata la risultato sportivo. Inoltre sono anche state emanate una serie di disposizioni di carattere tributario ed ha istituito le norme che hanno abolito il “vincolo sportivo” ovvero quell’istituto che attribuiva alle società sportive il diritto di utilizzazione esclusiva delle prestazioni di un giocatore. Con tale abolizione le società hanno acquisito una notevole forza contrattuale nella gestione del contratto dei giocatori e la conseguenza era che il giocatore doveva quasi sempre accettare la destinazione decisa dal club di appartenenza.
Tale situazione è rimasta di fatto immutata per circa quindici anni fino alla emanazione della Legge 18 novembre 1996 n° 586, nata sulla scorta delle celebre sentenza Bosman che, Il 15 dicembre del 1995, ha stravolto il quadro di riferimento precedentemente delineato. Era avvenuto infatti che il giocatore aveva citato in giudizio la propria società di appartenenza, il Liegi, e la Federazione calcistica belga colpevoli di aver impedito con una serie di norme restrittive il trasferimento ad un club transalpino con cui il giocatore aveva trovato accordo dopo la conclusione del suo contratto con il Liegi.
Le conseguenze della lunga battaglia giudiziaria intrapresa da Bosman ha avuto conseguenze anche in Italia ed il dibattito sportivo culturale e politico ha dato il là ad una serie di modifiche sfociate nella Legge 586 del 1996. Con tale legge si è stabilito che le società potessero effettuare la distribuzione degli utili fra i suoi azionisti, con l’esclusione del 10% degli utili da reinvestire nell’attività.
La dimensione economica del settore ha oramai raggiunto dimensioni ragguardevoli, i club hanno iniziato a sviluppare un orientamento al mercato e di conseguenza iniziano a dotarsi di una struttura complessa che consenta loro di conciliare lo sport con quell’orientamento al profitto tipico delle organizzazioni “business oriented”.
Quel contesto aveva consentito all’Italia ed al calcio italiano di essere per 15 anni il calcio leader in Europa, quello con il maggior numero di campioni e di vincitori di Palloni d’Oro, con la nazionale sempre protagonista nei campionati mondiali ed in quelli Europei, oltre alle innumerevoli vittorie delle squadre italiane nelle Coppe Europee ed in quelle intercontinentali, tutte note ai tifosi ed agli appassionati di calcio.
Infatti il calcio italiano aveva saputo creare un modello, che ha rappresentato un unicum, di perfetta simbiosi fra il modello gestionale paternalistico e anche un po’ ruspante rappresentato dalla generazione dei presidenti/patron, ad un modello di presidenti/proprietari di grandi disponibilità patrimoniali che in qualche modo è riuscito a garantire al calcio italiano una presenza costante sulla scena europea e mondiale pur senza effettuare il cambiamento culturale richiesto ed effettuare quindi il passaggio da quel modello gestionale, ad un modello di calcio manageriale e industriale che il nuovo scenario avrebbe imposto.
La vittoria dei mondiali del 2006: la svolta mancata
Esaurita la premessa e limitandoci agli accadimenti degli ultimi anni, dal 2006 ad oggi, e prima ancora di analizzare i prospetti relativi ai ranking Uefa e ai fatturati generati dalla prime venti squadre europee, proverò a rappresentare quanto sia cambiato lo scenario di riferimento, partendo da un dato: la valutazione data dai broadcaster televisivi nazionali alla Premier League è pari a 1,95 miliardi di euro annui, mentre la Serie A si è dovuta accontentare di una cifra pari a meno della metà.
L’analisi dei numeri relativi all’anno 2006, a distanza di soli cinque anni dal prospetto precedente, mostra una realtà in evoluzione, si guardi al dato rappresentato dal fatturato delle società che è quasi triplicato, alla conferma delle squadre di vertice del calcio europeo, sia per fatturato che nel ranking, e della conferma della presenza del calcio italiano al vertice di quello europeo.
I seguenti prospetti, desunti rispettivamente da Football Money League 2006 e dal sito UEFA, sono relativi a quello che può essere definito l’anno zero del calcio italiano, o l’anno della mancata svolta.
Infatti il trionfo della nazionale italiana ai Mondiali in Germania avrebbe dovuto favorire una stagione di riforme che invece non è mai iniziata. La vittoria sarebbe potuta essere l’occasione per mettersi alle spalle anni di errori, di plusvalenze selvagge, di fidejussioni false, di retrocessioni bloccate, dalla Serie B alle Serie C1 (campionato 2002/03) nel tentativo di salvare squadre che con la perdita della cadetteria avrebbero probabilmente rischiato il fallimento, di squadre promosse dalla Serie C2 alla Serie B.
In sostanza le trasformazioni avrebbero dovuto imporre alle società italiane, e soprattutto ai suoi dirigenti ed ai suoi azionisti, di compiere una necessaria riflessione circa gli assetti societari e di management. Il mercato richiede l’utilizzo di strumenti e di tecniche di gestione aziendale sulla scorta delle aziende market oriented e profit oriented finora scarsamente utilizzati nelle società calcistiche.
Se si fosse attuata quella necessaria trasformazione culturale richiesta dal mercato, le società che compongono la Lega Serie A, avrebbero affrontato i cambiamenti dotandosi di strutture manageriali adeguate capaci di individuare possibili remunerazioni del capitale investito attuando quelle politiche aziendali volte a fronteggiare i costi nel breve periodo ed a garantire la solidità economica, patrimoniale e finanziaria delle società nel medio-lungo periodo, invece di avere bilanci eccessivamente, se non esclusivamente dipendenti dai ricavi rappresentati dalla cessione dei diritti TV.
Dai mondiali del 2006 alle mancate qualificazioni ai mondiali del 2018 e del 2022: il declino della nazionale nasce dal declino dei club
Il calcio italiano ha così perso attrattività gradualmente ed inesorabilmente. Quello che una volta era senza alcun dubbio il campionato più importante d’Europa, grazie a Milan e Juventus su tutte ma anche alla presenza di tanti campioni e tanti vincitori del Pallone d’Oro (dal 1982 al 1998 solo in due occasioni vinse il premio un calciatore che non militava in Italia), ha quindi perso a poco a poco terreno verso i diretti concorrenti.
Per quanto i numeri, e le classifiche, vadano sempre interpretati, una semplice lettura delle graduatorie relative al fatturato ed al ranking Uefa, entrambi riferiti alle prime venti posizioni, da la misura del declino del calcio italiano, e dell’ascesa della Premier League.
ANNO 2011
ANNO 2016
ANNO 2021
Nel 2006 soltanto il Real Madrid ed il Manchester United, le prime della graduatoria, fatturavano poche decine milioni in più di Milan e Juventus, rispettivamente al terzo ed al quarto posto del ranking per fatturato. Inoltre le due stesse squadre italiane, con l’aggiunta dell’Inter, erano tre delle prime cinque squadre del ranking UEFA, insieme alle due grandi spagnole Real Madrid e Barcellona, che occupavano i gradini più bassi del podio.
Nel 2021 invece il Manchester City, prima della graduatoria per fatturato con quasi 650 milioni di euro di ricavi, fatturava praticamente il 50% in più del fatturato della prima italiana, la Juventus, ferma a 433 milioni di euro, e quasi il triplo del fatturato del Milan, pari a soli 216 milioni di euro.
Un dato ancora più recente, riferito all’anno 2023, cioè quello del valore delle prime venti squadre europee, dimostra che il valore delle prime squadre europee è di quattro volte superiore a quello delle due squadre milanesi, e più del doppio del valore della Juventus. Bisognerebbe quindi partire dagli errori commessi ed iniziare quel cambiamento culturale che deve interessare tutto il mondo del calcio, i proprietari delle squadre in primis, il management delle squadre, e la difesa dei propri piccoli orticelli.
Oltre i numeri: quali soluzioni
Dopo aver esaminato i numeri del declino si pone a questo punto il tema di quali possano essere i rimedi per provare ad invertire la tendenza.
Un esempio al riguardo potrebbe essere rappresentato da ciò che è stato fatto dalla Federazione calcistica tedesca, la DFB (Deutscher Fußball-Bund). Il mondo del pallone tedesco ha conosciuto un periodo di crisi prima della fase finale dei Mondiali 2006, visto che tra l’ottobre del 2004 e il giugno del 2005 emerse uno scandalo sportivo riguardante alcuni arbitri che avevano truccato alcune partite di Coppa di Germania e di campionati minori in cambio di denaro. La mancata vittoria di quei Mondiali disputati in casa ha tuttavia costituito l’occasione per una totale rifondazione del sistema.
Il declino era già iniziato negli anni ’90, per via anche dell’età media elevata di molti dei suoi campioni, ma in seguito a quegli episodi sì è attuato un programma di rilancio del sistema calcio attraverso la cura e la crescita dei giovani futuri campioni, applicando un programma di formazione partito dalle scuole e proseguito poi nei centri giovanili e nelle seconde squadre.
In Italia, la Juventus è stata antesignana delle seconde squadre, ed infatti in seguito alla reintroduzione nel calcio italiano delle squadre riserve come da disposizioni federali, è stata iscritta al campionato di Serie C 2018/19 il nome di Juventus U23, ed ha rappresentato l’unico caso nel panorama italiano fino alla stagione in corso, che vede la partecipazione anche della seconda squadra dell’Atalanta, forse la società con il miglior settore giovanile, al campionato di Serie C, girone A.
Dalle costituzione ad oggi sono circa 30 i giocatori che sono passati nella Under 23 della Juventus ad aver esordito in prima squadra, fra cui molti attualmente titolari nella stessa squadra sabauda, o in altre squadre militanti nei maggiori campionati, a dimostrazione che la strada che dovrebbe essere seguita è proprio quella di un rilancio che passi dai settori giovanili e dalle seconde squadre. Un modello osteggiato da chi ha preferito investire in una seconda squadra, su tutti il caso Lotito e De Laurentis con Salernitana e Bari, con il secondo ancora proprietario della storica società barese attraverso la società Filmauro.
Una volta individuato quella che, a parere dello scrivente, dei vertici del calcio tedesco e delle grandi società spagnole, dovrebbe essere il modello da seguire, si pone il problema delle istituzioni, che dovrebbero essere riformate per non costituire un freno allo sviluppo. Infatti la Federazione, la Lega Serie A, il sistema dei controlli contabili, gli organi di giustizia sportiva, tutti il sistema calcio dovrebbe essere gestito secondo criteri di competenza e di trasparenza.
Il calcio italiano ha affrontato nel corso degli ultimi 20 anni una serie di problemi che avrebbero meritato una gestione più trasparente, si pensi alla pantomima del blocco delle retrocessioni dalla B alla C, ideata quando storiche società del calcio italiano si sono trovate in fondo alla classifica della Serie B. La FIGC, per correre in soccorso alle citate squadre, ha ideato cosiddetto d.l. “salvacalcio” che ha scatenato un ripescaggio di massa nelle serie inferiori. Il vero capolavoro è stato compiuto per iscrivere la Fiorentina, anzi la Florentia Viola (il nome della squadra dopo la creazione di una nuova società in seguito al fallimento nell’estate 2003 e prima che la proprietà Della Valle riacquistasse il titolo sportivo), vincitrice di uno dei gironi della Serie C2, alla Serie B 2003-2004 per meriti sportivi e per bacino d’utenza, per i postumi del caso Catania e per l’esclusione del Cosenza dalla seconda serie.
Sempre in quegli anni ricordiamo la vicenda del passaporti falsi, delle cessioni del marchio effettuata in favore di società riconducibili alle stesse società che ne erano proprietarie per limitarne l’indebitamento ed ottenere i requisiti per la iscrizione al campionato di SerieA, il decreto sugli ammortamenti Ed ancora la gestione dello scandalo che al termine della Serie A 2005/06 ha interessato la Juventus ed altre squadre, fino alle più recenti vicende sulle plusvalenze, il sistema calcio ha dimostrato di non avere una gestione improntata alle più elementari regole di governance e di trasparenza.
Non esiste altra strada, a parere dello scrivente, che quella di rifarsi alle regole di una corretta gestione aziendale orientata all’efficienza ed al marcato.
Occorrerebbe affidare la gestione della Lega Serie A a personalità di comprovate capacita professionali, vietando la nomina di dirigenti che abbiano già ruolo apicali negli organi gestori e di controllo della società di calcio, o che ne siano direttamente o indirettamente azionisti. Per le società dovrebbero applicarsi le regole che governano l’accesso ed il mantenimento dei requisiti dei mercati borsistici, per esempio un mercato comparabile per dimensioni media potrebbe essere quello dell’AIM, con riferimento agli obblighi di trasparenza nei confronti di tutti gli stakeholders, ed ai requisiti di nomina degli amministratori.
Il sistema calcio, nella sua interezza, in Italia è un settore molto importante, che coinvolge molti aspetti della società. Secondo la FIGC, il fatturato diretto generato dal calcio in Italia è di 4,7 miliardi di euro 1. Questo rappresenta il 12% del PIL del calcio mondiale 1. Il calcio professionistico italiano è uno dei principali settori industriali italiani e un asset strategico dell’intero Sistema Paese, un comparto economico in grado di coinvolgere 12 diversi settori merceologici nella sua catena di attivazione di valore, con un impatto indiretto e indotto sul PIL italiano pari a 10,2 miliardi di euro e oltre 112.000 posti di lavoro attivati, non si può pensare di gestirlo prescindendo da quelle regole di trasparenza ed efficienza che sono le uniche che potrebbero consentire di ridurre il gap nei confronti di sistema più evoluti perché gestiti nel rispetto delle regole di mercato.
Senza questi cambiamenti il calcio italiano sarà condannato ad un declino costante ed inarrestabile