La ricetta di un top banker per il calcio italiano. Intervista a Marzio Perrelli di Hsbc

«Il calcio italiano ha bisogno di un framework organizzativo più efficiente, in linea con la nuova dimensione dell’industria calcio/entertainment». E’ questo, secondo Marzio Perrelli, chief executive officer di HSBC in…

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«Il calcio italiano ha bisogno di un framework organizzativo più efficiente, in linea con la nuova dimensione dell’industria calcio/entertainment». E’ questo, secondo Marzio Perrelli, chief executive officer di HSBC in Italia, l’aspetto sul quale l’industria del calcio italiana deve lavorare per cercare di colmare il gap in termini di risultati economici e sportivi rispetto agli altri principali campionati europei.

«In un momento in cui grandi gruppi esteri, e in particolare asiatici, stanno guardando alle squadre italiane come target d’investimento, diventa infatti necessario» – spiega Marzio Perrelli in questa intervista a Calcio e Finanza – «creare un contesto organizzativo, manageriale e infrastrutturale, che consenta a questi capitali di essere impiegati al meglio per lo sviluppo del calcio italiano. E’ una grande opportunità da sfruttare».

Domanda. Dottor Perrelli, il calcio italiano, dal punto di vista economico, non sembra passarsela molto bene. La Serie A, che una volta era al top in Europa, oggi figura dietro Premier League, Liga spagnola e Bundesliga in termini di ricavi. Perché?

R. «E’ necessario un cambio di marcia in modo da poter recuperare il terreno perso negli ultimi 15 anni. Il calcio, da semplice passione per milioni di persone in Italia e nel mondo, è diventato in questi anni un prodotto di entertainment globale. Nel recente passato in Italia si è scelto di fare leva soprattutto sulla commercializzazione dei diritti tv a livello nazionale e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Altrove, penso alla Premier League, sono state fatte scelte più lungimiranti e oggi il campionato inglese è quello che incassa di gran lunga di più dalle televisioni e ad ogni turno di campionato ha gli stadi pieni».

D. Che cosa servirebbe al calcio italiano, e alla Serie A in particolare, per recuperare il terreno perso?

R. «Credo che mai come in questo momento, in cui il calcio italiano inizia ad attrarre importanti capitali esteri, serva un contesto normativo e organizzativo adeguato ai tempi, che consenta di commercializzare al meglio il prodotto Serie A anche sui mercati internazionali e che permetta a questi capitali di essere impiegati nel migliore dei modi. Senza questo passo in avanti anche un club modello come la Juventus rischia di essere penalizzato e meno competitivo rispetto ai top club inglesi, spagnoli e tedeschi con i quali si confronta in Europa».

D. In che senso?

R. «A mio modo di vedere la Juventus, dal punto di vista gestionale, può essere annoverata tra i migliori club in Europa assieme a Manchester United, Bayern Monaco, Real Madrid e Barcellona. Ma fintanto che in Italia la Juve sarà vista dalle altre società come un’eccezione, anziché come un benchmark al quale ispirarsi, difficilmente si potrà creare un processo virtuoso capace di ridare competitività a tutta la Serie A. Sia per la Juve così come per i Club con nuove importanti proprietà estere (vedi l’Inter), la Serie A non può e non deve rappresentare una zavorra. Altrimenti l’ipotesi di un campionato Europeo diventerà sempre più’ una necessità difficilmente arginabile per chi investe centinaia di milioni».

Il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, e l'ad Beppe Marotta
Il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, e l’ad Beppe Marotta

D. Eppure nonostante i ritardi in termini organizzativi e infrastrutturali il calcio italiano ha cominciato a attrarre capitali stranieri. L’Inter è stata acquistata da Suning e anche il Milan è in procinto di passare sotto la bandiera cinese. Perché proprio ora?

R. «Ci sono diverse ragioni. In primo luogo il governo cinese sta incentivando gli operatori locali ad investire sul calcio, come sanno bene tanti nostri allenatori e calciatori che sono stati ingaggiati da club cinesi. In secondo luogo sul mercato europeo ci sono sempre meno club blasonati, che possono vantare i successi internazionali di Milan e Inter, e con un importante seguito di tifosi in Cina e più in generale in Asia che possono essere oggetto di take-over da parte di gruppi cinesi. E poi non bisogna dimenticare che Milano è una delle piazze finanziarie più importanti in Europa oltre che uno dei poli globali della moda e del design. E’ un vero peccato che nell’anno di Expo, con la finale di Champions League, nessuna delle due squadre milanesi abbia disputato una competizione europea. Il potenziale di crescita per Inter e Milan è enorme, visto il loro palmares e la città in cui giocano».

Il gruppo cinese Suning ha rilevato il controllo dell'Inter per 270 milioni
Il gruppo cinese Suning ha rilevato il controllo dell’Inter per 270 milioni

D. Ma è proprio necessaria una proprietà straniera per rilanciare Milan e Inter? Non sarebbe bastato adottare un modello manageriale più efficiente rispetto al passato, visto che entrambi i club hanno una base di ricavi comunque importante, almeno in confronto ad altri club italiani?

R. «Per fare bene in Italia forse sì, ma Milan e Inter sono società che hanno uno spessore internazionale e che come la Juve devono confrontarsi con i top club europei. Per questo sono necessari anche ingenti capitali che il modello mecenatistico alla base dei successi passati delle due squadre milanesi non è più in grado di reperire».

D. Perché allora non percorrere la via della quotazione in borsa?

R. «Non sono molto favorevole all’idea di quotare i club in borsa. Per quello che ho visto non credo ci sia un grande vantaggio. In Italia ho seguito, anche se da lontano, la quotazione della Juve. A un certo punto si diceva che sarebbe stata utile perché così poteva diventare competitiva nell’attrarre calciatori prospettando loro un package finanziario simile a quello dei manager delle banche. Ma non credo che Messi o Cristiano Ronaldo decidano di giocare in una squadra perché gli dicono “se vinci la Champions potrai esercitare le stock options”.  Poi se si vuol far passare il calcio come entertainment puro e cercare così delle quotazioni con dei multipli più alti si può, però io rimango dell’avviso che non è la soluzione migliore. Si può avere una gestione intelligente, che dia dei buoni risultati e ritorni per l’azionista anche senza la borsa».

D. E invece l’azionariato popolare sul modello di Real e Barca?

R. «Quelli di Real Madrid e Barcellona sono casi atipici. Non credo possano essere replicabili in Italia. La somma dei 120-130 mila soci a Barcellona non è quella che consente di pagare il cartellino di Neymar o di Messi. Credo invece che l’azionariato popolare possa essere un bel veicolo per portare più gente allo stadio, per vendere merchandising, per rafforzare il marchio».

D. Il calcio moderno, si diceva, è diventato un’industria. C’è spazio per nuove professionalità?

R. «Penso di sì e lo auspico. Se la gestione sportiva è giusto che resti appannaggio di chi ha quel tipo di professionalità, sotto il profilo manageriale e finanziario, se arrivano delle competenze che non sono prettamente calcistiche, ma che si sposano comunque bene con quelle sportive, secondo me il calcio italiano ne ha solo da guadagnare».