Venerdì in occasione dell’assemblea di Lega il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis ha lanciato una provocazione, che poi tanto provocazione – se analizzata dal punto di vista economico – non è: riportare la serie A a 16 squadre, come quando negli anni ’80 la Juve di Platini, la Roma di Falcao, il Napoli di Maradona e infine il Milan di Sacchi con Gullit e Van Basten dominavano la scena.
Una ipotesi che ha riscosso – tra gli altri – i favori (68%) dei follower di Twitter di C&F, stando al sondaggio da noi promosso subito dopo le dichiarazioni di Aurelio De Laurentiis.
Ipotesi suggestiva? Gli ostacoli sono molti, e tutti per lo più di natura economica, ma la volontà e alcune idee innovative potrebbero permettere di superarli.
Il maggior problema: i club piccoli devono cautelarsi dal rischio retrocessione che abbatte i loro ricavi (che dopo un anno di serie A finiscono ad essere legati per il 70% alla tv). Ad oggi il fronte è di 13 squadre (lo abbiamo riportato qui) e sarebbe addirittura più probabile (con due soli voti mancanti) una riforma con una redistribuzione a loro favore.
Il tema della riduzione delle squadre di serie A ha già fatto capolino il 20 ottobre. In quell’occasione i club fecero subito la voce grossa: “Si può accettare il passaggio a 18 solo le squadre rimanenti guadagneranno di più grazie alla presenza di due commensali in meno alla divisione della torta dei diritti tv”.
Ma ecco perchè la serie A con meno squadre sarebbe un affare, ed ecco come l’impianto potrebbe funzionare. Premessa: ciò che serve è un approccio di sistema al calcio italiano, non il tentativo di riformare piccoli aspetti affrontando di volta in volta solo gli interessi corporativi del momento.
DIRITTI TV. Posto che il problema del “paracadute” per chi retrocede diventa più drammatico tanto più quanto il campionato è ricco (anche la Premier league dibatte da anni su questo annoso problema) in serie A vi è un duplice aspetto: accanto alle garanzie sarebbe auspicabile anche un riequilibrio dei ricavi. C&F aveva provato a immaginare, ad esempio, come sarebbe qui l’applicazione del riparto all’inglese adottato dalla Premier (con rapporto 1-1,57 tra prima e ultima).
La serie A a 16 squadre in questo senso sarebbe quella che garantirebbe le rinunce minori ai grandi club fermo restando la garanzia degli 837 milioni da dividere. Insomma: ridurre numericamente le fette per mantenere dimensioni accettabili e garantire al contempo le quote di solidarietà alla serie B.
Qualcuno può obiettare: meno partite, meno ricavi. Non è vero. Le tv pagano per trasmettere partite appetibili. Non a caso un esperto di diritti tv come Riccardo Silva (Mp & Silva) aveva – già prima di De Laurentiis – auspicato una serie A a 16 squadre.
E non a caso i piccoli club sono i primi ad volere che i diritti tv siano trattati collettivamente (in Italia come in Spagna, per dire): solo così si garantiscono un ricavo più importante (benché molto inferiore) di quello che avrebbero trattando da soli. Quando ci hanno provato (a trattare da soli o anche ad autoprodursi) hanno sempre perso soldi oppure sono andati incontro a fallimenti come quello della piattaforma Gioco Calcio (anno 2003, chi se la ricorda: durò operativamente un mese e legalmente un anno).
EVENTI SPORTIVI. Una serie A a 16 squadre avrebbe anche un maggior interesse dal punto di vista sportivo. Innanzitutto perchè il valore della singola partita aumenterebbe nell’economia di un campionato con 30 giornate anzichè 38 come ora. Aggiudicarsi i 3 punti quando la quota scudetto è a 90 è un conto, farlo con il 30% in meno di monte-punti a disposizione dà tutto un altro risalto all’evento. Del resto – si sa – il problema dei campionati a girone unico è che all’aumentare del numero di squadre (e quindi di partite) diminuisce il valore sportivo del singolo evento.
Inoltre la riduzione porterebbe come primo effetto all’eliminazione dei turni infrasettimanali che notoriamente hanno meno valore anche economico: non a caso il computer nel giorno dei calendari viene istruito per evitare i big match in occasione delle gare infrasettimanali.
IL FORMAT. Per tenere altissima la competizione si potrebbe poi optare per alcuni espedienti di fine campionato ad esempio un play off a 4 squadre per l’ultimo posto disponibile in Europa (come già accade nell’Eredivisie, il campionato olandese) oppure la retrocessione virtuale della penultima che andrebbe a giocarsi i play off con le squadre di serie B.
Significherebbe qualificare 3 squadre (sperando che tornino presto 4) alla Champions League e 3 alla Europa League finendo quindi (con il play off) per dare obiettivi fino alla ottava-nona squadra (il 50% o più del totale) di un campionato che con 16 squadre e 30 giornate sarebbe sempre interessantissimo.
IL PARACADUTE. Il problema retrocessione sarebbe diverso se anche la serie B venisse riformata, magari portata essa stessa a 16 squadre. Anche in questo caso minori fette ma più sostanziose dai diritti tv, ma anche un aumento dell’interesse televisivo della competizione con una promozione diretta e 7 squadre ai playoff (più la penultima di serie A) per un finale di stagione davvero spettacolare. Non è la stessa cosa televisivamente raccogliere pubblicità su un Empoli – Carpi in cui ci si gioca la serie A ed uno in cui ci si giocano 3 di 114 punti totali per la permanenza in categoria in contemporanea con altri 4-5 incontri domenicali.
Il contraltare alla penalizzazione che si subisce in caso di retrocessione è stato evidenziato bene da De Laurentiis: “Non mi sembra giusto che qualcuno venga in serie A per prendere qualche milione e poi riscappare in B”. Una frase che ha riportato alla mente il progetto Mantova di quest’estate dove la salita in serie A (o in quel caso anche solo in serie B) sembrava più una scommessa low cost per andare ad accaparrarsi la torta dei diritti tv (dipende solo dagli appetiti che si hanno) che un serio progetto sportivo di valorizzazione della piazza nel lungo periodo.
LA PIRAMIDE. Uno dei problemi del calcio italiano è che la piramide è poco sviluppata: se si fallisce si va in serie D ma se si è bravi in due anni si può tornare in serie B. Significa che ad esempio nessuno ha interesse a salvare il Parma in B evitandogli la D perchè tanto i 22 milioni richiesti (di fatto per il titolo sportivo) sono una cifra abnorme rispetto a quello che si può spendere soffrendo qualche anno in categorie inferiori per risalire.
Diverso se – come in Inghilterra – una retrocessione facesse ripartire dall’undicesimo livello.
Per questo serve una diversa strutturazione dei campionati: ad esempio 4 categorie a girone unico (A, B, C1 e C2) prima di una serie D strutturata su tre livelli anzichè su uno solo e un campionato interregionale con altri 3 livelli prima dei campionati regionali.
L’obiettivo: rendere più ripida la piramide e stringere l’imbuto delle promozioni/retrocessioni per difendere i valori nel lungo periodo con categorie in grado di generare un impatto meno traumatico in caso di retrocessione.
Il fallimento della Lega Pro è tale perchè ha messo 60 squadre tutte sullo stesso piano con l’illusione della promozione in B come premio economico quando invece sarebbe stato più salutare dividere queste squadre in almeno 3 diversi livelli.
Rendere più lungo il percorso di ascesa verso la A e la B ridarebbe valore alle grandi piazze (vedi Parma) e rimetterebbe al centro dell’attenzione i tifosi. Le parole di Lotito a Iodice erano fastidiose per i metodi e i messaggi subliminali che contenevano e la posizione di potere occupata da chi le pronunciava, ma avevano un fondo di verità: l’ascesa di tante piccole squadre in sè non è auspicabile perchè volenti o nolenti queste squadre non saranno mai “piazze vere” per il calcio ma solo piccoli feudi di ricchi signori.
Non auspicabile e, a ben vedere, nemmeno tanto democratica al di là della retorica della Cenerentola che va a giocare coi grandi (che sarebbe tale solo se il Chievo schierasse giocatori nati nel quartiere, non alle condizioni di mercato attuali dove risulta quella che negli ultimi anni ha impiegato meno giocatori del proprio settore giovanile). A meno che per democrazia sportiva non si intenda il coinvolgimento di piccole piazze solo perchè lì esistono ricchi feudatari locali in grado di scommettere per qualche anno sul calcio.
Quando non esistevano i proventi tv i presidenti erano più incentivati ad acquistare i club dei capoluoghi di provincia perchè la fetta più importante dei ricavi (benchè esigua rispetto all’esborso complessivo) era legata alla biglietteria e agli sponsor (più attratti dalla grande piazza) anzichè ai diritti tv che in fondo sono uguali per tutti nel senso che premiano ugualmente se ti chiami Carpi anzichè Modena, Sassuolo anzichè Reggiana o Cittadella anzichè Padova.
In conclusione: la riforma della serie A avrebbe successo solo se accompagnata da una riforma complessiva della piramide del calcio italiano. In caso contrario rimarrebbe solo una operazione isolata del tutto incapace di ridare linfa a un movimento che ha bisogno prima di tutto di idee e qualità oltre che di un progetto di lungo respiro. Ma nello specifico la serie A a 16 squadre avrebbe l’effetto di riportare il nostro calcio ai fasti degli anni ’80 con altissima competitività ed un livello di interesse moltiplicato, nonostante il numero inferiore di partite.