Valerio Casagrande (47 anni) è il Chief Financial Officer (CFO) del Parma dal 2018. Durante questo lasso di tempo il club ducale è passato da una proprietà cinese al ritorno dei sette imprenditori parmigiani che lo avevano rifondato per giungere nelle mani dello statunitense Kyle J. Krause. In questa intervista esclusiva a Calcio e Finanza il manager ha spiegato l’andamento del bilancio dei gialloblu in chiusura al 31 dicembre e le prospettive della società emiliana nel medio e lungo periodo.
Domanda. Con il ritorno in Serie A, quali sono le stime sul bilancio 2024, in chiusura al 31 dicembre?
Risposta. «La campagna trasferimenti si è perfezionata nel rispetto del perimetro finanziario che avevamo programmato. Anche dal punto vista tecnico – sportivo è stata coerente con la nostra visione strategica basata tra le altre su giovani e player trading. Sono stati, infatti, acquisiti giocatori di belle speranze e talento e sin da ora validamente impiegabili in un contesto estremamente competitivo come il campionato di Serie A e che quindi presentano un notevole potenziale in chiave futura. Abbiamo contenuto brillantemente la spirale inflazionistica che tipicamente si genera in relazione ai costi a seguito del passaggio di un club dalla Serie B alla Serie A. Questo elemento è in controtendenza rispetto alle dinamiche osservate, ma al contempo non è sorprendente nel nostro caso, in quanto pianificato e implementato nel percorso ideato nelle passate stagioni che aveva portato alla costituzione di una rosa di giocatori di proprietà aventi potenziale e inseriti in un percorso di crescita».
D. Per quanto concerne invece i ricavi?
R. «Sul fronte dei ricavi beneficiamo delle iniziative aziendali poste in essere dalla società e della naturale crescita determinata dal passaggio di categoria per quanto attiene ai proventi derivanti dai diritti audiovisivi e, in generale, a quelli commerciali tutti. La combinazione di quanto sopra determinerà un sensibile miglioramento dei risultati economici rispetto alle ultime stagioni (il bilancio 2023 ha segnato una perdita di 80,5 milioni, ndr) e l’allineamento con il percorso improntato al futuro raggiungimento della sostenibilità economico – finanziaria del club».
D. Il Parma tra le sue leve economiche punta, come diceva prima, sui giovani anche per puntare sul player trading: va ormai considerato una fonte ordinaria di ricavi?
R. «La selezione, l’acquisizione e lo sviluppo di giovani talenti, provenienti da tutto il mondo, è un pilastro della strategia aziendale del Parma. Coerentemente, l’età media della nostra prima squadra maschile è la più bassa della Serie A. Abbiamo un modello e un posizionamento sportivo molto ben definito, che portiamo avanti con grande consapevolezza e coerenza. Premettendo che quanto dirò deve essere inquadrato in un ambito gestionale e le mie considerazioni non afferiscono alla sfera contabile e fiscale in senso stretto, l’ordinarietà dei ricavi derivanti dal player trading dipende, dal punto di vista concettuale, dal modello di business adottato dal club».
D. In che senso?
R. «Se la gestione è sistematicamente imperniata sull’acquisto e rivendita dei giocatori e/o sullo sviluppo del settore giovanile e sulla valorizzazione degli atleti provenienti dal vivaio, allora i ricavi del player trading sono da considerare ordinari, in quanto organici al modello gestionale e nient’altro che “naturale effetto del ciclo produttivo” caratteristico implementato dalla società. Viceversa, non sono ordinari, se il modello gestionale del club è fondato su altre direttrici e il ricavo derivante è frutto di una circostanza di natura estemporanea. Dal punto di vista numerico, invece, i ricavi derivanti dal player trading sono difficilmente inquadrabili come ordinari, in quanto, soprattutto in un orizzonte temporale pluriennale, sono molto difficilmente prevedibili in termini di quantum. Questa caratteristica non deve in ogni caso esimere il management della società dal porsi dei target previsionali che guidino le iniziative aziendali».
Krause e gli investimenti sulla strada per la sostenibilità
D. Il presidente Kyle J. Krause ha investito molto nelle casse del club da quando nel 2020 ha acquisito il club: servirà ancora a lungo il suo sostegno economico/finanziario? Qual è la strada per la sostenibilità senza l’intervento del proprietario?
R. «L’impegno della nostra proprietà nel club è di lungo periodo. In ragione di questa prospettiva, nel corso di questi primi anni successivi all’acquisizione sono stati effettuati investimenti significativi. La nostra rosa rappresenta, tra gli altri, un asset, interamente proprietario, di notevole valore. È stato, dunque, pianificato un percorso di progressivo raggiungimento della sostenibilità economico – finanziaria, in cui nella prima fase, consapevolmente, l’equilibrio deve essere garantito dall’intervento della proprietà. I capisaldi gestionali del percorso sono costituiti dall’identificazione e dallo sviluppo di nuove linee di ricavo, nonché dalla già menzionata valorizzazione tramite il player trading».
D. Non sono però mancati momenti in cui il supporto è stato necessario.
R. «In questa traiettoria virtuosa, si sono verificati tre eventi che hanno accentuato le necessità finanziarie: la coda degli effetti negativi del covid e la retrocessione in Serie B, nonché la permanenza in tale campionato per due stagioni. A queste circostanze sicuramente non positive, la proprietà ha risposto con grande determinazione, profondendo un impegno ancora maggiore e permettendo al club di mantenere una capitalizzazione costantemente positiva e di evitare l’indebitamento finanziario, per giunta, senza ricorrere alla leva, concessa al settore un paio di anni fa, di rateizzare il debito fiscale. Una linea di condotta – mi permetto di dire – improntata alla serietà e al rispetto della comunità dei contribuenti, cioè tutti noi».
D. Sempre in tema di proprietà USA, in Italia sono sempre di più numerose: cosa portano al nostro calcio?
R. «Mi perdoni la digressione puramente personale, la mia avventura a Parma è iniziata quando il socio di maggioranza era un gruppo cinese, a cui è succeduto il ritorno dei sette imprenditori parmigiani che avevano rifondato il club (Guido Barilla, Giampaolo Dallara, Mauro Del Rio, Angelo Gandolfi, Marco Ferrari, Giacomo Malmesi, Paolo e Pietro Pizzarotti, ndr) e che hanno ceduto la società all’attuale proprietà americana. Pertanto, ho maturato una certa esperienza in contesti proprietari differenti ed è stato ed è tuttora stimolante comprendere le diverse culture aziendali e apprendere differenti approcci strategici ed operativi. La domanda però è generale, per cui rispondo cercando di combinare elementi derivanti dalla mia personale esperienza con le impressioni raccolte da parte di altri dirigenti di club a proprietà straniera.».
D. Prego.
R. «Un primo elemento caratterizzante delle proprietà nordamericane è l’obiettivo di creare valore in un orizzonte temporale di medio – lungo termine, naturalmente salvo per i fondi per cui la prospettiva è, per ovvie ragioni, differente. Anche da questo caposaldo consegue l’attenzione verso la programmazione, declinata sia in termini di pianificazione economico – finanziaria sia in termini di strutturazione dell’organizzazione del club in entrambe le componenti, sport e corporate. I nuovi investitori hanno, inoltre, introdotto prospettive innovative e portato esperienze manageriali di altre realtà dello sport professionistico e non, contribuendo ad arricchire i modelli di gestione dei club. Ulteriormente c’è una grande sensibilità in merito alla funzione dell’analisi dei dati a supporto delle decisioni strategiche ed operative. Nel mio ruolo di CFO, non posso che essere estremamente felice di questo approccio».
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D. Quanto impatta il contesto tipicamente italiano della nostra Serie A rispetto alle proprietà straniere?
R. «Il contesto è un elemento di sfida, senza dubbio. Ritengo che sia premiante la lettura e la corretta interpretazione delle differenze esistenti in relazione ad alcuni ambiti significativi, ossia al mercato e al diritto del lavoro, al rapporto con i fan/tifosi e alla dimensione dei rapporti relazioni con le istituzioni/enti facenti parte dell’ecosistema nazionale e settoriale. Credo che tale sfida sarà vinta, ponendosi in un’ottica evolutiva, ossia combinando da un lato con determinazione, dall’altro con equilibrio, l’azione innovativa, indispensabile per l’emersione della redditività di sistema, con gli elementi di contesto presenti».
D. Nello specifico del suo lavoro, cosa significa essere il CFO di un club di calcio italiano avente proprietà americana?
R. «Significa essere un business partner nell’ambito del senior leadership team e nei confronti del consiglio di amministrazione in merito alle decisioni strategiche e operative, nonché alla conduzione delle attività aziendali. Ciò implica:
- sia la padronanza delle competenze fondamentali del ruolo, ossia, tra le altre, corporate finance, accounting, budgeting, costruzione di modelli finanziari previsionali, conoscenza della normativa regolamentare ordinaria e settoriale
- sia la comprensione profonda delle logiche del business, nonché la capacità di relazionarsi con gli stakeholder interni ed esterni della società e comunicare con essi in forma appropriata ed efficace.
Grande rilevanza inoltre è riconosciuta alla funzione delle informazioni economico – finanziarie a supporto delle decisioni. Pertanto, diventa fondamentale sviluppare il sistema di reporting, in termini di frequenza, tempestività e capacità previsionale, declinandolo secondo le dimensioni reddituale, patrimoniale e di cash flow. Nel corso degli anni siamo arrivati a sviluppare una reportistica, consuntiva e prospettica, con cadenza mensile e a fornire, in tempo sostanzialmente reale, un flusso informativo esaustivo e, nel contempo, sintetico e analitico a supporto delle decisioni di calcio mercato».
D. Quanto è importante il rapporto tra area sportiva e finanziaria?
R. «Ritengo l’interazione tra area sportiva e finanziaria in sede di calcio mercato come elemento fondamentale per la sanità economico – finanziaria di un club. E nel caso del Parma credo sia adeguatamente governata e tempestivamente presidiata. Tutto questo grazie all’imprinting della proprietà, alla proficua collaborazione e alla competenza di tutte le parti, nonché alla consapevolezza che un tale approccio determina buon governo societario e amplia le opportunità di raggiungimento degli obiettivi aziendali».
Gli stadi e la necessità di interventi normativi
D. Passando alla questione stadi: è veramente determinante? Quale è la sua visione?
R. «Credo che sia la principale priorità del settore. Lo “stadio di proprietà” in senso allargato, ossia comprendendo anche la fattispecie della concessione dell’impianto per plurime decadi, rappresenta l’asset materiale più importante per un club, gli garantisce un flusso costante di entrate, è determinante nel raggiungimento della sostenibilità economico – finanziaria e consente alla società di porsi in una prospettiva di pianificazione di lungo periodo».
D. Uno dei grandi temi su questo argomento specifico è quello della burocrazia: serve un intervento del governo in tal senso?
R. «Sì, sono auspicabili interventi normativi – e mi sembra di cogliere segnali confortanti provenienti dal Governo a tal proposito – che migliorino il buon punto di partenza rappresentato dalla “legge stadi”. L’obiettivo dovrebbe, in particolare, essere quello di semplificare l’iter burocratico, attualmente molto complesso e che prevede l’interlocuzione con una molteplicità di soggetti, e di introdurre delle agevolazioni fiscali al fine di incentivare gli investimenti. L’innesco di un processo di rinnovamento infrastrutturale – mi permetto di dire – non avrebbe, peraltro, ricadute benefiche solo sul mondo calcistico. Esistono, infatti, numerosi studi sugli impatti economico-sociali di un nuovo stadio che mostrano i significativi effetti positivi sul benessere economico e sociale della comunità cittadina. Insomma, non è solo una questione specifica delle società di calcio, ma interessa l’economia del Paese nella sua globalità».
D. Il calendario è molto intasato soprattutto per i grandi club impegnati nelle coppe. C’è timore da parte vostra che questo numero di partite internazionali riducano gli investimenti dei broadcaster sui diritti tv dei campionati nazionali. E di conseguenza penalizzino le piccole-medie società?
R. «Credo che per le Leghe Nazionali che organizzano e sovraintendono le competizioni domestiche sia una preoccupazione molto attuale e che ha già disvelato, almeno parzialmente, i suoi effetti. Non è un tema che riguarda necessariamente in via esclusiva i club medio – piccoli. Credo, invece, che sia un tema generale di sistema».
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Come modificare il Decreto Crescita per far crescere il calcio italiano
D. Si parla nuovamente di Decreto Crescita: vede la sua possibile reintroduzione positivamente o negativamente?
R. «Nel porsi nei confronti del Decreto Crescita (ovvero i vantaggi fiscali per i calciatori provenienti dall’estero, ndr) bisogna considerare che i suoi effetti impattano su due ambiti molto rilevanti: la competitività del sistema calcio nazionale e l’impiego dei calciatori italiani. Il primo obiettivo spingerebbe nella direzione della sua reintroduzione, il secondo, invece, privilegerebbe il mantenimento dell’attuale situazione. Credo che, in principio, entrambe le istanze abbiano la loro dignità e siano meritevoli di tutela. Questo pone il legislatore di fronte a una sfida non banale, ma nemmeno impossibile, secondo la mia opinione. Tra la sua riproposizione in forma inalterata rispetto alla versione originaria e l’attuale scenario in cui – e lo dico in forma iper-semplificata – non è vigente, esiste, infatti, una terza via che aspira a coniugare le due richiamate esigenze: l’adozione di un modello sostanzialmente nuovo».
D. In quale modo?
R. «Ci si deve porre nell’ottica di dotare i club italiani di uno strumento per attrarre (pochi e veri) campioni e al tempo stesso preservare gli investimenti nei settori giovanili e la competitività delle nazionali italiane. Misure di attrazione di campioni, anche stranieri, possono benissimo essere compatibili con lo sviluppo del calcio italiano e dei giocatori italiani. La chiave di volta è come tali misure sono congegnate, al fine di non determinare effetti distorsivi. L’accesso al beneficio fiscale dovrebbe essere determinato dal palmares e/o curriculum sportivo (numero presenze nei campionati, numero presenze in nazionale, numero panchine, etc.) declinato per fasce di età e per categoria professionale. Si dovrebbe definire una soglia di accesso – espressa nei termini delle determinanti menzionate – di livello ragguardevole, rendendo la misura aderente a un fine più elevato, ossia l’attrazione di pochi campioni, che siano da traino per il movimento. Una volta ristretta sensibilmente la base dei beneficiari, dovrebbe essere incrementato il beneficio fiscale individuale».
D. Quali sarebbero vantaggi e svantaggi di questa ipotesi?
R. «I vantaggi sarebbero notevoli: si realizzerebbe l’aderenza al principio di qualificazione professionale, che è cardine all’interno della cornice fiscale complessiva in cui era inserita la misura specifica; si caratterizzerebbe la misura per un maggior grado di oggettività – e, dunque, di giustizia – rispetto a quello del reddito (uno stipendio elevato può sì essere rappresentativo del valore del giocatore, ma anche essere determinato da un «cattivo affare» in fase di negoziazione). Inoltre sarebbe rispettoso della parità di genere. L’accesso sarebbe, infatti, possibile anche per le calciatrici le quali di fatto, sulla base del livello di reddito, erano escluse».