Tanto rumore per nulla. Il calciomercato invernale che si è concluso in settimana è terminato praticamente con un nulla di fatto in Italia. Se si esclude infatti qualche operazione di complemento condotta da Napoli e Roma, le grandi del nostro calcio non si sono praticamente mosse. Tanto che l’operazione più onerosa è stata l’acquisizione dal Verona di Ivan Ilić da parte del Torino per 16 milioni. Per altro dopo che i granata avevano ceduto Saša Lukić al Fulham per 10 milioni.
In totale in Italia sono stati investiti 31 milioni. Una miseria rispetto alla ricchissima Premier League dove invece sono stati spesi oltre 800 (quasi 330 solo da parte del Chelsea). La lega inglese, a conferma di uno strapotere economico imbarazzante, ha peraltro speso tre volte di più di Serie A, Liga spagnola (31), Ligue 1 (125 milioni) e Bundesliga (68) messe insieme, con spese tra l’altro superiori a tutte le leghe mondiali sommate.
In questo quadro può sembrare incoraggiante sotto certi aspetti che dopo il regalo erariale concesso dal governo nella manovra del mese scorso sulla rateizzazione delle tasse non pagate, le società di Serie A abbiano fatto per così dire le brave e non si siano date a spese pazze. Ma la verità è che più che un ravvedimento etico-morale da parte dei club, si è trattato soprattutto del fatto che non c’erano soldi da investire.
La Serie A e la complicata gestione dei suoi top player
Ne è emerso quindi che i veri protagonisti del calciomercato italiano sono stati tre casi “fantasma”, ovvero quelli di Skriniar, Leao e Zaniolo, tre giocatori di cui si è parlato per un mese intero e che almeno per questa sessione di mercato sono rimasti dove erano.
Si tratta ben inteso di tre casi diversi nella loro natura, ma che tutti evidenziano un grande problema: vale a dire la crescente difficoltà dei club italiani a gestire la situazione di giocatori importanti anche quando il suddetto calciatore si trova a una distanza ragguardevole dalla scadenza di contratto che lo lega a quella determinata società. Prima di Skriniar e Leao c’erano stati per esempio i casi di Donnarumma e di Kessié.
Entrando nello specifico e parlando di casi standard va detto che il contratto che lega il giocatore a un club è stilato normalmente per quattro stagioni. Si nota però che ultimamente è sempre più frequente che dopo il primo anno di chiamiamola “luna di miele” con il club, le parti, soprattutto se il giocatore ha fatto bene (o il procuratore ha ricevuto segnali da club esteri) entrano in tensione. Già verso la fine del secondo anno, ovvero a nemmeno metà della durata naturale del legame, le società spesso si trovano col fucile puntato perché il giocatore e il suo procuratore cominciano a minacciare di andarsene a zero, ben sapendo che di lì a un anno e mezzo potranno firmare per un altro club e liberarsi quindi nel giro di due stagioni.
Si dirà: dov’è la novità? In termini giuridici nulla è mutato da quando, a metà degli anni novanta del secolo scorso (e più precisamente nel 1995), è entrata in vigore la sentenza Bosman. Un verdetto che togliendo le limitazioni sul numero di calciatori stranieri in rosa (per quanto riguarda quelli comunitari) ha aumentato il potere dei giocatori nei confronti delle società. Prima di quella sentenza infatti anche i club più ricchi avevano posti limitati per i calciatori stranieri e questo impediva giocoforza rose formate soltanto praticamente delle migliori stelle del panorama internazionale.
Quindi cosa c’è ora di diverso? La diversità sta nel fatto che esiste un gruppo di squadre, molto limitato se si osserva l’intero panorama europeo, che ha un capacità di spesa praticamente inarrivabile per i club che non fanno parte di questa élite economica. Non a caso le vicende sono sensibilmente diverse quando i giocatori in questione, come nei casi Dybala o Calhanoglu, hanno solo una domanda nazionale.
L’élite del calcio tra Premier League e “resto del Mondo”
Questo gotha in particolare si divide in due parti: da un lato i club della Premier League, nessuno escluso, che possono vantare ricchissimi ricavi da diritti televisivi e non solo e quindi una capacità di spesa inarrivabile per molte società nel continente. Sebbene qualche osservatore sostenga che questa situazione sta arrivando al suo picco e presto si potrebbe vedere un arretramento in termini di spesa, al momento però bisogna constatare non solo come il Chelsea abbia investito nel solo mese di gennaio qualcosa come 330 milioni di euro circa, ma anche come il semisconosciuto Bournemouth, 17esimo in Premier League, abbia potuto proporre alla Roma un’offerta per Zaniolo che il Milan, secondo solo al Real Madrid per numero di Coppe Campioni vinte, non ha nemmeno potuto pensare di poter pareggiare.
Il secondo sottoinsieme di questa élite è composto da un ristretto gruppo di club continentali – per altro sempre più assottigliato dalle dinamiche del mercato – e che al momento consta di quattro membri:
- Real Madrid e Barcellona, che godono di notevoli vantaggi fiscali in virtù della loro natura associativa e delle norme che sul finire degli anni ottanta hanno ristrutturato il calcio spagnolo;
- il Paris Saint-Germain, posseduto dal fondo sovrano del Qatar e che formalmente riesce a rispettare i parametri del fair play finanziario anche, se non soprattutto, tramite le sponsorizzazioni di parti correlate legate sempre al Paese del golfo;
- e il Bayern Monaco che però, oltre alla bravura dei dirigenti bavaresi, beneficia anche del fatto di essere praticamente l’unico club dal sangue blu del Paese più ricco d’Europa nonché locomotiva economica della Ue. Con il risultato che molti colossi della cosiddetta Corporate Deutschland fanno la gara per essere legati alla società biancorossa. Tanto per fare un esempio non appena Audi (gruppo Volkswagen) fece sapere di stare valutando se continuare la propria partnership con il Bayern, la rivale BMW ha immediatamente spiegato di essere pronta a sostituire eventualmente la casa concorrente a fianco della società bavarese.
Tirando le fila, il combinato disposto di questa situazione – composta dalla liberalizzazione del mercato, club, come quelli italiani, con sempre minore capacità di spesa (e qui la colpa è per lo più dei dirigenti delle stesse società di Serie A) e dalla crescente possibilità di investimenti impareggiabili da parte di una élite di squadre sempre più limitata (capace di offerte irrinunciabili per i giocatori migliori e i suoi procuratori) – creano una sorta di tempesta perfetta per chi deve gestire i club che da quel gotha sono esclusi – ovvero i club di Serie A e i loro omologhi in Spagna, Francia, Germania e Portogallo – che sono praticamente inermi di fronte al potere dei calciatori e dei loro agenti.
Come se ne esce? Una strada, secondo alcuni, è quello di un intervento normativo. Perché, si sostiene e non senza fondamento, che il calcio, e lo sport in generale, sono settori industriali diversi dagli altri. I campionati hanno bisogno di 20 squadre più o meno competitive per offrire uno spettacolo decente, così le coppe o qualsiasi manifestazione sportiva di lungo periodo. E quindi la tendenza naturale del capitalismo di premiare i migliori e andare verso la concentrazione dei player deve essere in qualche modo moderata per il bene comune del movimento.
E’ un strada percorribile in teoria. Ma sicuramente è un percorso che nel caso sarebbe molto lungo, visto che bisognerebbe prima individuare gli strumenti e poi, cosa non certo semplice, avere l’avallo di quei club al vertice della catena alimentare che non si capisce perché dovrebbero dare il proprio benestare a una situazione che li vede in posizione di potere. Infine, per dirla tutta, non va nemmeno dimenticato come i club estranei a questa élite non è che disdegnino i soldi delle società al vertice quando questi arrivano. Per essere più chiari: quando l’Inter nel 2021 vendette Lukaku al Chelsea e Hakimi al PSG incassando denari pesanti e salvifici per il proprio bilancio, non stette molto a pensare al futuro e alla evoluzione del sistema calcio.
Il caso Enzo Fernandez e le scelte del Benfica
L’altra strada, più triste ma sicuramente immediatamente percorribile, è quella scelta dal Benfica nella cessione del 22enne argentino Enzo Fernandez, appena venduto al Chelsea per 121 milioni. Soprannominato in patria “El Musico” per la sua capacità da direttore d’orchestra di dare il ritmo al gioco, Fernandez era arrivato al Benfica per 10 milioni di euro (più eventuali 8 milioni di bonus) nell’estate del 2022 dopo essere stato seguito anche dal Milan. Il giocatore è stato protagonista in autunno di ottime prestazioni nel club portoghese e soprattutto di un Mondiale vinto da protagonista con la sua nazionale e tutti gli osservatori, sia in patria, che in Portogallo che in Inghilterra, sono concordi che non sarà una meteora, al contrario, è un grande candidato a essere uno dei migliori centrocampisti (se non lo è già) dei prossimi anni. E quindi in teoria il suo valore non è destinato a calare, ma se possibile a crescere ancora.
Eppure, malgrado il Benfica sia in lotta per il campionato portoghese (al momento è in vetta alla Primeira Liga) e si sia qualificato brillantemente (davanti a PSG e Juventus) agli ottavi di Champions League dove incontrerà il Club Brugge (e quindi con buone speranze di approdare ai quarti), il club lusitano ha preferito incassare subito rischiando di indebolire significativamente la squadra per il resto di una stagione che la vede in corsa su più fronti. «Si è fatto di tutto perché non accadesse. Sono triste per aver perso il giocatore, ma ho la coscienza pulita di aver fatto il meglio per il Benfica. Enzo non ha mostrato alcuna voglia di restare», ha commentato il presidente dei lusitani Manuel Rui Costa, ex stella tra le altre di Milan e Fiorentina.
Troppo alto infatti il rischio che di qui a giugno qualcosa o qualcuno si mettesse di traverso nei rapporti tra il club, il giocatore e il suo entourage e quindi troppo alto il pericolo di iniziare il classico tira e molla sul rinnovo e l’incubo di non incassare una somma così ingente da un giocatore così importante.