Articolo a cura di Luca Filidei
Negli ultimi anni, con la diffusione delle piattaforme Over the top, la quantità di docuserie incentrate sul mondo dello sport si è inevitabilmente arricchita, riempendo i vari cataloghi con reclamizzate (e inaspettate) escursioni “dietro le quinte”, capaci di attualizzare dinastie, icone o anche semplici eventi conosciuti o meno che prima erano essenzialmente ripercorribili tramite biografie e video su YouTube.
L’acclamata serie The Last Dance ne è chiaramente un esempio (con tanto di replica cartacea per mano di Scottie Pippen), grazie al suo storytelling in grado di (ri)avvicinare diverse generazioni ai Bulls degli anni Novanta e al personaggio di Michael Jordan, ma la lista è infinita, con “speciali” dedicati a Tony Parker, LeBron James, Vince Carter, solo per citare qualche esempio attinente all’universo della National Basketball Association.
Nonostante tale exploit, mancano però ancora molti cestiti da analizzare, approfondire, raccontare con una prospettiva differente rispetto a quella glitterata dei palcoscenici NBA. L’ultimo ad essere spuntato da questa to do list è per esempio un’icona che poteva essere protagonista di una docuserie almeno una decina di anni fa, talmente è immensa la sua personalità. Sì, ci stiamo riferendo a quel giocatore alto 216 centimetri e pesante 147 chilogrammi che rappresentava lo spauracchio di molti difensori quando calcava il parquet, conosciuto come Superman, The Diesel, The Big Aristotele, ma anche semplicemente come Shaq.
E in effetti, ora è possibile confermarlo, anche O’Neal può giustamente vantare una docuserie ad hoc, denominata appunto Shaq, diretta da Robert Alexander, già regista di The Shop con LeBron, e al momento in onda sulla rete statunitense HBO. Quattro episodi ancora inediti in Italia con l’ambizione di raccontare non solo l’uomo dietro il giocatore, che è poi l’obiettivo di qualsiasi docuserie contemporanea, ma anche le dinamiche (e le fragilità) sconosciute di un quattro volte campione NBA.
Shaquille O’Neal – Dalle origini alla NBA
Si parte dalle origini, la crescita con un sergente dell’esercito, suo padre adottivo, per poi passare all’esperienza nei Tigers della LSU (Lousiana State University) che gli aprì la strada verso il Draft. Prima scelta assoluta nel 1992, proprio davanti al suo futuro compagno Alonzo Mourning, con gli Orlando Magic che passano da un record di 21- 61 dell’anno prima al 41-41 della stagione 1992-1993. Da lì l’arrivo di Penny Hardaway, le Finals ’95 perse contro i Rockets dell’idolo Hakeem Olajuwon, la coppia con Kobe, il three-peat con i Lakers e il trasferimento agli Heat di Wade che portò all’inaspettato (per molti ma non per Shaq) trionfo del 2006 contro i Mavs.
Una promenade di emozioni, insomma, alternate tra dolorose sconfitte e straordinari successi, che nella serie vengono rappresentati anche attraverso i “non detti” di quelle stagioni: dagli antidolorifici che erano diventati un habitué alle pressioni dello showbiz, di cui O’Neal è ancora assoluto protagonista. Già, perché di lui, ormai a più di dieci anni dal ritiro con i Boston Celtics, si continua comunque a parlare. La serie Shaq ne è un esempio. E questo grazie alla sua capacità di non essere dimenticato, di restare un’icona al di là del trascorrere del tempo.
Il suo impatto nel 1992 fu devastante. Con Hardaway a fare il Magic divenne persino illegale, tanto da costringere l’invenzione dell’Hack-aShaq. O’Neal cambiò le strategie e rinforzò i tabelloni. Eppure restò (anche) il solito ragazzone nato a Newark, contea di Essex. Lo stesso che ora soffre d’insonnia per la scomparsa della sorella e di Kobe. O che si interroga sul proprio rapporto con la famiglia. Da una parte l’uomo. Dall’altra il tramandatore dello status del vero centro NBA. Per una docuserie, può anche bastare.