La mancata qualificazione della Nazionale al Mondiale di Qatar 2022 segna indiscutibilmente il punto più basso mai toccato dal calcio italiano nella sua storia.
Prima dell’esclusione da Russia 2018 e da Qatar 2022, la selezione azzurra nella sua storia non si era qualificata per la fase finale in sole due occasioni: nel 1930 perché Mussolini non volle partecipare al primo Mondiale in Uruguay (salvo poi pentirsene amaramente, visto che li organizzò in Italia soltanto quattro anni più tardi) e nel 1958, quando venne eliminata nella fase di qualificazione dall’Irlanda del Nord.
Per la prima volta l’Italia quindi non si è qualificata per due Mondiali in maniera consecutiva. Un evento mai accaduto sinora ed è tanto più grave se si osserva che considerando le grandi del calcio europeo bisogna tornare indietro di almeno 30 anni – la Francia non partecipò nel 1990 e nel 1994 – per trovare una grande selezione che ha mancato l’appuntamento iridato per due edizioni di fila.
Si dirà: però in mezzo a questo lasso di tempo la stessa Nazionale ha vinto un Europeo. Vero, però il trionfo di Londra 2021 alla luce di una analisi di più lungo periodo sembra più un exploit estemporaneo che non un frutto di una programmazione.
Anche perché il calcio di club non se la passa certamente meglio. Le squadre italiane non vincono la massima competizione europea per club dal 2010. Si tratta di un periodo di 12 anni che quindi avvicina pericolosamente i 16 anni trascorsi tra il 1969 (seconda Coppa dei campioni del Milan) e il 1985 (primo trionfo della Juventus) che tuttora rappresenta l’intervallo senza successi più lungo del pallone nostrano.
Numeri preoccupanti per un movimento che come mostra il Report Calcio della FIGC ha un numero di tesserati pari a poco più di un milione (1.026.488), in calo del 3,4% nel 2019/20 rispetto al 2018/19, tra i più importanti in Europa in termini numerici.
Nei giorni scorsi molto si è dibattuto sullo scarso numero di giocatori italiani impiegati nei top team del nostro Paese. Però, a bene vedere, questo è un problema non solo italiano: attiene per esempio anche all’Inghilterra o alla Germania ma ciò non ha impedito alle nazionali di Southgate e Flick di qualificarsi facilmente al Mondiale.
Soprattutto quello dei vivai è un problema annoso – basti fare un giro sugli archivi delle maggiori testate nazionali per trovare molti articoli sul tema anche negli anni scorsi, in particolare nei due decenni a cavallo del cambio del secolo. Ma questo non impediva alla Nazionale italiana di essere tra le protagoniste assoluto del panorama mondiale.
Semmai il punto è che in quegli anni i nostri giocatori non trovavano grande spazio perché venivano loro preferiti giocatori esteri di livello assoluto. Ora invece non trovano spazio pur in presenza di una Serie A di categoria tecnica minore, visto l’incapacità dei club italiani di assicurarsi i top player assoluti. In quegli anni infatti si sosteneva che la qualità della Serie A aiutasse i migliori giovani italiani a maturare migliorando tutto il movimento.
Insomma, più di questione di quantità sembra una questione di qualità che rimporta a bomba a quello che appare essere il punto fondamentale della questione: l’incapacità del calcio italiano di sostenersi economicamente visto che ormai il modello mecenatistico ha ormai preso la via della pensione, sia perché sembra effettivamente fuori dai tempi sia perché che l’Italia (famiglia Agnelli a parte) non dispone più di dinastie industriali disposte a investire pesantemente sullo sport più amato.
Negli ultimi anni club come Lazio e Napoli hanno mostrato grandi capacità di coniugare un certa competitività sportiva con bilanci solidi. Mentre soltanto in tempi più recenti le big storiche hanno intrapreso un percorso verso la sostenibilità della loro azione aziendale. La prima società tra queste a tracciare il solco è stata il Milan che sotto la guida dei manager del fondo Elliott ha iniziato questa opera due anni orsono arrivando a far segnare un utile nella prima semestrale 2021/22 (come rivelato in settimana da Calcio e Finanza), anche se l’esercizio terminerà in perdita (tra 40 e 50 milioni). Sulla stessa falsariga anche Inter e Juventus sembrano seguire questa strada e i rispettivi amministratori delegati parlano sempre più spesso di sostenibilità. L’Inter nel 2021/22 dovrebbe dimezzare le perdite rispetto ai 245 milioni della scorsa stagione, mentre la Juventus dovrebbe attestarsi sui 150/200 milioni di perdita.
Ma in un calcio che appare tuttora in mezzo la guado dal modello mecenatistico di stampo berlusconiano/morattiano a quello della sostenibilità sembra ancora presto per vedere i risultati di questa eventuale svolta. Anche perché il settore ancora siede su oltre 5 miliardi di debiti.
Soltanto infatti quando i club avranno una certa rilassatezza finanziaria potranno pensare non solo come poter migliorare i bilanci in un’ottica di mera sopravvivenza ma anche a programmare e dare vita a una sorta di circuito virtuoso che parte dal basso. Magari partendo da una migliore organizzazione dei vivai sulla falsariga de La Fabrica del Real Madrid, La Masia del Barcellona o l’academy del Chelsea che negli ultimi anni ha sfornato giocatori a ciclo continuo.
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In questo quadro osservando quanto succede negli altri Paesi emergono molte similitudini al sistema italiano: calendari intasati, molti stranieri e monte salari troppo alti. Ma risalta anche una differenza profonda: quella legata alle infrastrutture. Per storia in Italia gli stadi non sono stati mai di proprietà delle società. Questa carenza nei decenni scorsi (quando ancora il calcio era di presidenti mecenati) si limitava a pesare nei bilanci dei club come un mancato valore nel patrimonio della società, ma nel sistema moderno, da quando si è instaurato il modello calcio-business, la mancanza di uno stadio all’avanguardia è pesante anche perché non si ha a disposizione una macchina per incrementare le entrate.
Per fare un esempio i top club che hanno realizzato nuovi stadi nei tempi recenti, valorizzando al massimo l’esperienza del match-day, registrano nei propri bilanci ricavi da stadio intorno ai 100 milioni di euro l’anno (es. Bayern Monaco, ricavi da Allianz Arena: 92,4 milioni nel 2018/19; Tottenham Hotspur, ricavi da New White Hart Lane: 107,7 milioni nel 2019/20 nonostante lo stop per il Covid). E questo permette loro di investire sui giocatori, gli allenatori, i tecnici, la fidelizzazione e la cura dei tifosi, le squadre giovanili, la responsabilità sociale. Inter e Milan, nel contempo, pur appartenendo alla stessa categoria di top club internazionali, oggi dallo stadio Meazza non ricavano neppure la metà di queste cifre, con impatti sulle loro performance e opportunità̀.
Eppure salvo rare eccezioni – Allianz Stadium, Dacia Arena, Mapei Stadium -, in molte città italiane, Milano in primis, il dibattito su un nuovo impianto langue, con buona pace di quegli abitanti del Nord che guardavano con un certo sarcasmo le lungaggini sul nuovo stadio della Roma.
Una miopia che è emersa in tutta la sua grandezza in settimana quando a Roma alla presenza delk presidente del Coni Giovanni Malagò è stato presentato il primo Osservatorio Sullo sport System realizzato dall’Ufficio Studi di Banca Ifis. Osservatorio che ha messo in luce in maniera incontrovertibile quanto sia conveniente investire sullo sport e sulle sue infrastrutture
Lo studio infatti ha spiegato che in Italia sono presenti circa 35 milioni di appassionati di sport, di cui 15,5 milioni di praticanti abituali, rendendo lo sport un settore di primaria importanza per l’economia e la società italiana. Nel 2019, infatti prima dell’emergenza Covid, lo sport ha generato ricavi per 95,9 miliardi di euro, con un’incidenza sul Pil italiano del 3,6%, dando lavoro a circa 389 mila persone.
Non solo, ma secondo l’Osservatorio c’è un effetto moltiplicatore: 1 milione di investimenti pubblici attiva quasi 9 milioni di risorse private che generano un fatturato annuo di 20 milioni, una cifra 2,3 volte superiore agli investimenti privati.
Gli investimenti pubblici, si legge nella pagine dell’Osservatorio, hanno una forza propulsiva particolarmente elevata perché lo sport aggiunge a produzione e consumi elementi specifici legati al benessere, all’intrattenimento e alla salute in grado di amplificare il valore economico da esso generato. Non è tuttavia possibile prescindere dalla combinazione della spesa pubblica con le risorse private messe in campo dalle società sportive e di gestione degli impianti sportivi. Infatti, nell’anno medio di riferimento, a fronte di una spesa pubblica di 4,7 miliardi, gli operatori core dello Sport System (associazioni e società sportive, federazioni, enti di promozione sportiva, società di gestione degli impianti) hanno movimentato risorse per 41,8 miliardi tra spese per materie prime, servizi, personale e ammortamenti di beni materiali e immateriali, contribuendo a generare un valore complessivo di 95,9 miliardi.
Nonostante questo l’Italia investe nello sport una percentuale dello 0,5% del proprio Pil a fronte dell’1% di Francia e Spagna e dello 0,8% della media Ue.