Quando disporre il “ritiro” è legittimo: il caso Napoli

“Canà, tagliamo la testa al toro, le rinnovo la fiducia, porti la squadra in ritiro, servirà a ritrovare l’amalgama!”.

Con queste parole, ne “L’allenatore nel pallone”, il Commendator Borlotti, patron della…

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“Canà, tagliamo la testa al toro, le rinnovo la fiducia, porti la squadra in ritiro, servirà a ritrovare l’amalgama!”.

Con queste parole, ne “L’allenatore nel pallone”, il Commendator Borlotti, patron della Società Sportiva Longobarda, riconfermava la fiducia al suo istrionico allenatore, Oronzo Canà, e lo esortava a ricompattare la squadra. E in che modo? Con il ritiro, soluzione un tempo diffusissima nell’ambiente calcistico, che oggi torna in voga ogni qual volta ci sia da fronteggiare una crisi di risultati.

Certo, i tempi sono cambiati e la stagione dei ritiri estivi in località di montagna d’antan (distanti anni luce dal glamour delle tournée in Nord America o nell’Estremo Oriente), della preparazione atletica in stile “educazione siberiana” di Zdenek Zeman, scalando gradoni e macinando chilometri, o ancora quella dei pellegrinaggi forzati della Nazionale di Prandelli in cerca di un aiuto ultraterreno, sembra essere definitivamente tramontata. Con qualche eccezione.

Le vicende del Napoli di De Laurentiis e Ancelotti risalenti allo scorso novembre ne sono un esempio.

I fatti sono noti alle cronache: nell’autunno scorso, esasperato per l’andamento negativo della squadra, Aurelio De Laurentis ordinò al suo allenatore di portare tutta la squadra in ritiro. Il presidente partenopeo riteneva che quello fosse l’unico modo per far concentrare i propri giocatori e che una settimana a Castel Volturno avrebbe fatto ritrovare al Napoli “l’amalgama”. Squadra e allenatore, tuttavia, non la pensavano allo stesso modo: i giocatori (e non anche l’allenatore) rifiutarono di partecipare al ritiro, guadagnandosi letteralmente lo status di “ammutinati” (e multe salatissime da parte della società).

La vicenda, oltre che sul piano della cronaca (gli “ammutinamenti”, perlomeno alle nostre latitudini, sono cosa rara nello sport professionistico), è estremamente interessante anche sul piano giuridico. Il ritiro è legittimo se imposto? Può rappresentare una punizione?

Anzitutto va premesso che il ritiro è legittimo se rappresenta una scelta tecnica (dell’allenatore) o gestionale (della società). Non può e non potrà mai essere, invece, “punitivo” (ed infatti, nessun accordo collettivo – compreso quello dei calciatori professionisti di Serie A – lo contempla tra le sanzioni disciplinari).

In base alla Legge n. 91/1981, infatti, i calciatori professionisti sono veri e propri dipendenti subordinati delle società sportive e a essi si applicano (quasi tutte) le norme sul diritto del lavoro. In particolare, resta invariato il potere della società sportiva datrice di lavoro, al pari di qualunque altro datore di lavoro di sanzionare disciplinarmente i propri calciatori/dipendenti a fronte di un inadempimento ai propri doveri. Sempre però nel rispetto dei limiti e delle procedure imposte dalla legge e dagli accordi collettivi.

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Lorenzo Insigne, attaccante del Napoli (Foto: Cesare Purini / Insidefoto)

E in merito ai doveri dei calciatori professionisti di serie A, l’accordo collettivo contempla (all’art. 10), inter alia, che:

  • il Calciatore deve adempiere la propria prestazione sportiva nell’ambito dell’organizzazione predisposta dalla Società e con l’osservanza delle istruzioni tecniche e delle altre prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici (…);
  • il Calciatore deve evitare comportamenti che siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine della Società (…);
  • le prescrizioni attinenti al comportamento di vita del Calciatore sono legittime e vincolanti, previa accettazione delle stesse da parte del calciatore, accettazione che non potrà essere irragionevolmente rifiutata, soltanto se giustificate da esigenze proprie dell’attività professionistica da svolgere, salvo in ogni caso il rispetto della dignità umana (…);
  • il Calciatore non ha diritto di interferire nelle scelte tecniche, gestionali e aziendali della Società.

In caso inadempimento, l’accordo collettivo prevede espressamente le seguenti sanzioni (in ordine di gravità): rimprovero, multa, riduzione della retribuzione, esclusione temporanea da allenamenti, risoluzione del contratto. La sanzione deve essere preceduta da una contestazione scritta (entro venti giorni dalla conoscenza del fatto), rispetto alla quale il calciatore può difendersi (anche oralmente) entro cinque giorni. Il provvedimento potrà essere impugnato davanti al Collegio Arbitrale.

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Nel caso del Napoli si è verificato un atto ritenuto dalla società quale vera e propria insubordinazione, data dal rifiuto generale dei calciatori di effettuare il ritiro a Castel Volturno. Tale rifiuto, in quanto opposto a una direttiva del datore di lavoro, è stato quindi considerato dalla società un inadempimento contrattuale sanzionabile disciplinarmente con i provvedimenti previsti dall’accordo collettivo. La società, dunque, ha proceduto a inviare le contestazioni disciplinari ai propri giocatori e ha in seguito provveduto a comminare le sanzioni delle multe (salate per tutti, pari al 25% della retribuzione mensile, e salatissime per alcuni, pari al 50% della mensilità, i quali evidentemente hanno tenuto comportamenti ritenuti più gravi).

La vicenda non è però chiusa: i calciatori hanno impugnato i provvedimenti davanti agli organi competenti e ci vorrà del tempo prima che venga pronunciata la parola fine.

Il punto della querelle è proprio la natura del ritiro: rappresentava una “punizione” per le prestazioni poco convincenti imposta dal presidente all’allenatore – in quanto tale potenzialmente illegittima e giustamente rifiutata dai calciatori – o una scelta tecnica e gestionale della società (seppur inizialmente non condivisa dall’allenatore, che delle scelte “tecniche” e il primo e solo responsabile) cui i calciatori si sono illegittimamente rifiutati di adempiere? Nel primo caso le sanzioni verrebbero annullate; nel secondo verrebbero ritenute valide. Ai giudici (arbitri, in questo caso), l’ardua sentenza.

Articolo a cura di Martino Ranieri e Federico Carolla di BonelliErede