Competitività: la risorsa inesplorata degli sponsor collettivi

Non solo tetto salariale e diritti tv. Nel modello sportivo americano esiste anche un altro aspetto che viene spesso gestito “collettivamente”, ovvero la voce rappresentata da alcune sponsorship, che rappresenta una tra le principali fonti…

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Non solo tetto salariale e diritti tv. Nel modello sportivo americano esiste anche un altro aspetto che viene spesso gestito “collettivamente”, ovvero la voce rappresentata da alcune sponsorship, che rappresenta una tra le principali fonti di ricavo commerciale per un club.

Nei giorni scorsi CF – calcioefinanza.it ha dedicato una analisi ai ricavi commerciali di Serie A. Ed anche qui è evidente la disuguaglianza (che arriva anche ad un rapporto 1:25) tra grandi e piccoli club.

Ma anche qui, al fine di aumentare la competitività di un campionato, si potrebbe intervenire a vantaggio di tutte le società di una determinata Lega.

Nella visione calcistica contemporanea, ad esempio, ogni squadra è in possesso del diritto di essere assistita dalla società cui offre la cifra più alta possibile per un contratto di rifornimento di materiale tecnico, in caso di sponsor tecnico, oppure per soli fini di marketing, ovvero il main sponsor, associando il logo della propria azienda alla squadra che più rispecchia la propria cultura e immagine e anche in base alla visibilità del club cui vogliono essere associati.

Per cui, fin quando si parla del Real Madrid che firma un contratto faraonico con la Emirates tutto sembra normale: un’azienda che vuole promuovere la propria immagine e usa come veicolo una squadra di calcio pagando quanto ragionevolmente si può pagare un contratto di sponsorizzazione.

 

Chiamando in causa la più citata NBA, così come i diritti televisivi vengono commercializzati collettivamente all’interno della Lega, anche il reparto delle sponsorizzazioni segue la stessa dinamica: nel massimo campionato cestistico americano, è uno ed uno solo lo sponsor tecnico che provvede a rifornire le squadre del materiale di cui necessitano, la cui cifra contratta viene fatta transitare all’interno del BRI, Basketball Related Income, al pari dei proventi da diritti tv, il quale sarà la cifra presa in considerazione per il successivo calcolo del Salary Cap.

Per cui, la National Basketball Association oltre a collettivizzare i diritti televisivi, compie la medesima operazione anche per i contratti relativi agli sponsor, così da evitare le potenziali diseguaglianze che si verrebbero a formare per aziende che vogliono essere rappresentate da squadre appartenenti a “big market” rispetto a squadre facenti parte di “small market”.

Del resto il bacino d’utenza di New York è enormemente più grande rispetto a quello di New Orleans, quindi appare evidente che le aziende che vogliano essere associate a New York perché facente parte di un mercato molto più visibile rispetto a quello della cittadina della Louisiana.

E’ doveroso però sottolineare che la contrattazione per lo sponsor tecnico, che attualmente è ricoperto da Adidas alla quale, a partire dalla stagione 2017/18, subentrerà Nike, è collettiva, quindi coinvolge tutte le squadre della Lega, ma i main sponsor fanno capo a negoziazioni private, anche se il ricavato da detto contratto vada sempre a finire all’interno del Basketball Related Income.

Arrivati a questo punto si incontra il reale punto di forza della NBA, ovvero la propria forza contrattuale. Una rilevanza tale da conferirgli lo scettro di prima Lega per gestione del marketing in quanto, la Lega, in materia di sponsor tecnico, e le squadre, in termini di main sponsor, riescono a strappare dei contratti mastodontici da delle aziende consce del fatto che il loro logo non verrà esposto sulle divise da gioco.

Facendo un esempio, i Los Angeles Lakers pochi anni fa strapparono un contratto con la loro televisione privata, cioè l’equivalente di TeleLombardia, a una cifra con cui i dirigenti del Real Madrid aprirebbero il miglior champagne che hanno, a testimonianza del fatto che il logo di detta televisione non venga esposto da nessuna parte, e, non contenti di questo, la cifra oltre ad essere conteggiata nel calcolo del BRI, anche se i Lakers diventassero degli sceicchi da questo contratto, avranno in ogni caso il limite del Salary Cap, così da essere sullo stesso piano degli New Orleans Pelicans, che, come detto, appartengono a uno “small market”.

Chiaramente, le aziende vogliono avere un ritorno di immagine per giustificare i proprio ingenti investimenti in sponsorizzazioni e la via più utilizzata all’interno del mercato Usa è l’appropriarsi dei naming rights delle arene NBA concessi dalle franchigie. Infatti, solo un’arena è priva di tale fattispecie ed è il Madison Squadre Garden di New York, il quale però, a causa del suo storico nome, è una completa macchina da soldi.

Di conseguenza si va dal Barclays Center di Brooklyn allo Staples Center di Los Angeles, dal TD Garden di Boston allo United Center di Chicago.

Una estremizzazione di questo fenomeno è rappresentata anche dal fatto che molti club concedano la denominazione alle aziende non solo delle arene, ma anche alle singole entrate delle stesse: in sostituzione dei entrance gate che caratterizzano le entrate di qualsiasi palcoscenico ospitante un evento sportivo nella maggior parte dei casi numerate, alcune entrate sono dedicate alle aziende che si sono appropriate tale gate.

Facendo un esempio, i Green Bay Packers, franchigia militante nella NFL che disputata le proprie gare casalinghe al Lambeau Field, ha dato in concessione il Northwest gate a Verizon, il West gate a Associated Bank e il North gate a American Family Insurance.

Così, mentre i naming rights sono ormai a pieno titolo un’entrata dei club europei, rimane pressochè inesplorata la possibilità di contrattare collettivamente gli sponsor. Una soluzione, questa, che in realtà la Serie B ha già applicato con uno sponsor collettivo dietro le maglie, ma che potrebbe investire aspetti anche più importanti (come si è detto lo sponsor tecnico è uno di quesi): del resto se le major possono essere poco interessate a sponsorizzare un piccolo club singolarmente, l’opzione collettiva con la possibilità di marchiare una intera lega potrebbe risultare particolarmente redditizia oltre che – dal punto di vista del marketing – particolarmente interessante visto che definirebbe un design comune in grado di identificare immediatamente la squadra e la sua Lega di appartenenza.