«La religione non c’entra. Quante volte lo devo dire. Forse che le Crociate uccidevano per fare nuovi praticanti? O gli Indiani d’America sono stati sterminati in nome del cristianesimo? Ma no, per altri motivi, più realistici: possesso di nuove terre, aggressioni politiche, guadagni, mire espansionistiche. Sono le guerre nel mondo ad alimentare in qualche modo frustrazioni e disgrazie assurde. Per questo dico: attenti alle strade che vogliamo prendere, alle risposte che vogliamo dare. Io una spiegazione non la trovo. Ma è chiaro che ci vogliono ridurre alla paura, togliere la libertà. Dobbiamo tutti riflettere su che tipo di società vogliamo ed essere uniti».
Lilian Thuram, ex difensore di Parma e Juventus, campione del mondo nel 1998 con la Francia, proprio in quello Stade de France che venerdì è finito al centro degli attacchi terroristici dell’Isis, autore di un ultimo libro contro il razzismo, «Per L’Uguaglianza», da sempre impegnato nella lotta contro la discriminazione, in un’intervista a Repubblica, invita a non cadere nella trappola del fanatismo religioso ed ideologico nella risposta che la politica e la società civile, francese e più in generale occidentale, è chiamata a dare di fronte agli attacchi terroristici di venerdì 13 novembre a Parigi.
Thuram, che venerdì sera era a Parigi, racconta quello che è successo in quei drammatici momenti. «Ero a cena nel Quartiere Latino con degli amici. Quando ho iniziato a ricevere messaggi dalla mia nipotina che chiedeva dove fossi. Le ho risposto che era troppo giovane per farmi da mamma. E lei mi ha detto: ci sono sparatorie in città».
«Ho pensato a un regolamento dei conti e poi ai fatti di gennaio di Charlie Hebdo», spiega l’ex calciatore a Repubblica, «Così come gli altri ho iniziato a seguire le notizie. Parigi è ancora muta, tutti sentiamo di aver perso figli, fratelli, padri. La gente morta e ferita fa parte della nostra comunità, della nostra famiglia. La sensazione è questa. Non hanno ucciso gli altri, ma qualcuno di noi».
Thuram non vede differenze tra la follia omicida dietro alla strage nella redazione di Charlie Hebdo e quella di venerdì sera. «Non fa differenza. È la stessa cosa. I disegnatori di Charlie, la gente che ascolta musica, che va nei bar, che va allo stadio, fa parte dello stesso immaginario collettivo. È la Francia, è la sua idea. E la cosa che mi è piaciuta nella grande tristezza è che l’altra notte accanto allo stadio la gente ha aperto le porte di casa per aiutare i feriti, per portare aiuto e soccorso. Si chiama solidarietà. È fatta dalle persone normali, fa parte dell’animo umano: avere paura, ma anche superarla».