Si apre oggi in Corte d’Assise il processo contro l’ex capo ultrà dell’Inter Andrea Beretta e contro altri quattro imputati – Gianfranco e Marco Ferdico, padre e figlio, Daniel D’Alessandro e Pietro Andrea Simoncini – per l’omicidio di Vittorio Boiocchi. Un procedimento che, per Milano, ha un significato che va oltre il singolo fatto di sangue: segna l’inizio del crollo del sistema criminale che per anni ha controllato le curve di San Siro.
L’uccisione dello storico leader ultrà, eliminato dal suo stesso luogotenente con il coinvolgimento degli altri quattro (pagati da Beretta), ha infatti inasprito le tensioni già esistenti sulla gestione dei profitti provenienti da biglietteria e merchandising legati all’Inter. Quelle rivalità si sono moltiplicate e hanno prodotto, nel giro di meno di due anni, un secondo omicidio.
Il 4 settembre 2024, davanti alla palestra Testudo degli ultras nerazzurri a Cernusco, Beretta ha accoltellato a morte Antonio Bellocco. Lo avrebbe fatto dopo aver scoperto che Bellocco, insieme ai Ferdico e a D’Alessandro – praticamente lo stesso gruppo coinvolto nell’assassinio di Boiocchi – stava già organizzando la sua eliminazione. Il sicario prescelto, D’Alessandro, soprannominato “Bellebuono” era lo stesso che il 29 ottobre 2022 a Figino aveva esploso cinque colpi di pistola calibro 9 contro Boiocchi. Aveva persino acquistato in contanti un sacco di calce viva al Leroy Merlin, destinata a coprire la fossa per Beretta.
All’ultimo momento, però, D’Alessandro cambiò idea e confessò tutto alla futura vittima. Era legato a Beretta da un debito di riconoscenza – anni prima gli aveva salvato la vita con l’intervento di un gruppo di calabresi – e si era convinto che il prossimo «a sparire» potesse essere proprio lui, considerato un depositario «non fidato» di due omicidi.
Se D’Alessandro aveva poche vie d’uscita, Beretta, dopo aver ucciso uno ‘ndranghetista, si è sentito un uomo segnato. L’unica alternativa, per lui, era diventare collaboratore di giustizia. Lo dimostra un passaggio di un drammatico colloquio intercettato in carcere con la compagna: «Non hai capito, non hai capito… non è una questione di anni». Lei replica: «Cos’è successo che dici così?». E lui: «È successo che questi qui hanno fatto un’intercettazione telefonica e hanno detto che fanno una strage… tu mi devi ascoltare, mi devi ascoltare… non posso restare dentro». Lei lo ammonisce: «Non passare per l’infame!». La risposta è secca: «L’infame? Mi hanno tradito tutti. Volevano ammazzarmi!». E ancora lei: «Sono quelli che tu ti sei messo in casa…».
L’assassinio di Boiocchi, ricostruito anche grazie alle dichiarazioni di Beretta, ha segnato il punto più alto dell’ingerenza della ’ndrangheta nel tifo organizzato, ormai totalmente affidato alla protezione delle ’ndrine, e nell’economia che ruota attorno allo stadio di San Siro. Un’influenza estesa anche ai club di Inter e Milan che, pur riconosciuti parti lese nel processo “Doppia curva” e destinatari di un risarcimento di 50mila euro ciascuno, sono arrivati a un passo dall’amministrazione giudiziaria e sono stati sottoposti a misure di prevenzione.
Dopo l’eliminazione di Boiocchi, Beretta e i Ferdico si sono ritrovati in una posizione di fragilità rispetto al gruppo rivale degli Hammer. Secondo quanto riferito dallo stesso Beretta, il loro leader, Mimmo Bosa, avrebbe sfruttato la situazione per impadronirsi della cassa di We Are Milano e dei proventi della Curva Nord. «Ha queste conoscenze nel mondo dei calabresi». «…Morabito, Mancuso, De Stefano. Tutti li conosce», avrebbe detto Bosa. Beretta elenca così le famiglie che sostengono il gruppo antagonista, mentre lui, dopo l’omicidio, si era rifugiato a Petralcina, distruggendo il cellulare nel microonde per evitare di essere rintracciato.
È in quel contesto che, insieme ai Ferdico, decide di cercare protezione a sua volta affidandosi a un nome pesante della criminalità calabrese: Antonio Bellocco, originario di Rosarno, che viene «fatto salire», trovandogli lavoro e alloggio. «Ora ci siamo noi», si presenta Bellocco. In curva, da quel momento, restano solo gli striscioni con la sigla CN69. Gli omicidi di Boiocchi e Bellocco, insieme al precedente tentato assassinio di Enzo Anghinelli nell’aprile 2019 – avvenuto in pieno giorno in via Cadore, con un killer che si affiancò all’auto per sparargli al volto, episodio per il quale è stato condannato Luca Lucci, capo ultrà del Milan e già detenuto per narcotraffico – hanno cambiato radicalmente la percezione del fenomeno ultras.
Le indagini della Dda e della Squadra Mobile non hanno restituito l’immagine di un semplice tifo violento da stadio. Hanno invece portato alla luce un’associazione composta anche da esponenti della criminalità organizzata, con collegamenti stabili con altre consorterie mafiose e modalità operative che ricalcano quelle delle organizzazioni criminali. A partire dallo stesso omicidio di Vittorio Boiocchi, pianificato e portato a termine «con modalità mafiose».