«Se mi ricandido? Scioglierò la riserva tra qualche giorno, ma non deciderò da solo. Lo farò on le componenti del calcio italiano. Un federatore non può autocandidarsi, se non verifica il consenso attorno alla sua capacità di rappresentare una guida per il movimento. Il plebiscito sullo statuto è un segnale importante, che ho molto apprezzato. Ma riguardava le regole. Adesso la verifica si sposta sulla leadership». Lo ha detto il presidente della FIGC Gabriele Gravina, in una intervista al Corriere dello Sport.
«Serie A? Quelle astensioni provano che la maggior parte delle società ha compreso lo sforzo fatto per valorizzare il peso della Lega di A, e quindi è una presa di distanza rispetto a chi ha tentato di forzare la mano, in un’ottica non costruttiva ma esclusivamente oppositiva», ha proseguito il numero uno della Federcalcio.
«Cosa cambia con le nuove regole? È una rivoluzione. C’è da prepararsi a cambiare diventando al tempo stesso più autonomi e più responsabili. Vuol dire per esempio che l’autonomia delle Leghe nell’organizzare i campionati diventa piena e non più demandata dalla Figc. Ogni Lega potrà inserire playoff e playout senza dover dare conto alle altre Leghe e alla Federazione. Cambiare il numero di promozioni e retrocessioni? Deve raggiungere un’intesa con la Lega o le Leghe su cui la decisione impatta, e poi il Consiglio federale delibera con la maggioranza dei tre-quarti, sentito il parere delle componenti tecniche».
«Nessuno può cambiare i campionati da solo. Perché, per fare un esempio, se la serie A passasse a 18 squadre, dovrebbe farne salire tre dalla B e retrocederne cinque. Ma la B si troverebbe con 22 squadre. E dovrebbe a sua volta scaricarle sulla C. Un’intesa è necessaria».
«Un organo di garanzia e di coordinamento. Questo diventerà la Federazione, rinunciando a gestire in proprio. Ma soprattutto, nei confronti della Lega di A, rinunciando a decidere d’autorità… Vuol dire, per esempio, che le norme che riguardano specificamente la Serie A sono emanate solo d’intesa con la medesima Lega. Si chiama “intesa forte” e si sostanzia in una paritaria codeterminazione nel contenuto dell’atto tra Federazione e Lega. In caso di mancato accordo, l’autonomia della Lega è pienamente salvaguardata, perché si continuerà ad applicare la normativa in vigore. Niente potrà cambiare contro la sua volontà. Di quali norme si parla? Delle licenze, con cui si stabiliscono i criteri di ammissione al campionato. E anche del tesseramento dei calciatori».
«Perché la Serie A deve trovare un’intesa con il Consiglio Federale? Perché c’è un vincolo tracciato dalla legge dello Stato. Le licenze, recita la norma, sono adottate dal Consiglio Federale e approvate dal Coni. La Federazione deve rispettare la legge come tutti e quindi non può essere privata di una competenza che la legge le assegna».
«Si tratta di un’autonomia ben maggiore rispetto a quella del cosiddetto “modello Premier League”. Non a caso in Inghilterra la Federazione ha il diritto di veto anche sull’elezione degli organi direttivi della Lega. La Lega voleva far prevalere la propria volontà? Che intesa forte sarebbe questa? Sarebbe un’autodeterminazione. La verità è che, in questi mesi di confronto, di fronte a significative aperture della Federazione, che pure in assemblea la maggioranza dei club di A hanno dimostrato di apprezzare, è stato ogni volta rivendicato qualcosa di più dal presidente Casini, andando in alcune occasioni oltre la ragionevolezza. Con la conseguenza, evidentissima, di mortificare le altre componenti».
«L’emendamento Mulè? Tocca a noi interpretare l’indirizzo indicato dalla norma e la locuzione “anche”. Quando si dice “anche”, si dice implicitamente “non solo”. Il contributo economico della serie A corrisponde alla sua capacità di trasformare l’agonismo in spettacolo, e così produrre sviluppo e ricchezza. È un valore connesso al primato di qualità che richiede un’organizzazione dotata di alta specializzazione. Il calcio è anche questo, ma non solo questo. Lo dice l’articolo 33 della Costituzione: valore educativo e sociale. Che vuol dire: un milione di tesserati, duecentoquarantaquattromila dirigenti, quarantamila tecnici, trentatremila arbitri, per dare solo alcune misure della diffusione che fa di questo sport il più universale fenomeno della civiltà».
«Il calcio professionistico è il vertice della piramide, tanto più stretto quanto più posto in alto, quello volontaristico è la base, tanto più larga quanto più situata in basso. Se i pochi finissero per contare più dei molti, il calcio non sarebbe più il simbolo della sussidiarietà e dell’autogoverno degli sportivi, ma solo la giungla dei più forti».
«Oggi i professionisti contano il 34 per cento del Consiglio: la Serie A vale il 12 per cento e 3 consiglieri, la serie B il 5 per cento e un consigliere, la serie C il 17 per cento e 3 consiglieri. Domani la Serie A conterà il 18 per cento e avrà 4 consiglieri, la B il 6 per cento e 2 consiglieri, la C il 12 per cento e 2 consiglieri. La Legge Melandri assegna ai calciatori una rappresentanza del 20 per cento e agli allenatori del 10. Resta un 34 per cento che rappresenta tutto il mondo dilettantistico, dalla serie D al calcio femminile, un bacino di un milione di praticanti. Rompere l’equilibrio tra professionisti e dilettanti vorrebbe dire distruggere il calcio. Oltre che diventare un autentico caso in Europa».
«In Inghilterra la Premier vale appena il 6 per cento e i dilettanti il 67. In Francia i professionisti insieme contano il 37 e i dilettanti il 63. Non molto diversi sono i rapporti in Germania e Spagna. Sarebbe paradossale che, dopo aver riconosciuto in Costituzione il valore civile e sociale dello Sport, lo tradissimo così apertamente».
«Rispetto il ruolo e il pensiero dell’onorevole Mulé, ma la ripartizione di 4 consiglieri alla A, 2 alla B e alla C è un punto di equilibrio che risponde all’indirizzo della Legge e punta a non mortificare le altre componenti del calcio professionistico. Così si tiene insieme un sistema che si fonda sulla solidarietà. Ulteriore intervento legislativo? Sono convinto che l’onorevole saprà riconsiderare queste parole e sottrarsi alle pressioni di chi vuole distruggere un sistema, un’economia, un mondo, per interessi personali. Questa riforma è il frutto di un percorso di ascolto, di condivisione e di confronto aperto, che ci ha portato anche a cambiare alcuni punti e a migliorare il testo finale. Difende l’autonomia dello sport come un valore irrinunciabile della comunità e ha una saggezza politica che la buona politica deve saper ascoltare. Magari impegnandosi alle reali necessità del calcio. Penso alla Tax credit, a una percentuale sulle scommesse da investire in vivai e impianti, al pieno adeguamento della legislazione sull’apprendistato e a una semplificazione burocratica per la realizzazione e l’ammodernamento degli stadi. Questo è l’aiuto che la politica può darci».