Roma, stadio e delisting sono colpi. Ma il difficile arriva ora

Il magnate texano acquistò il sodalizio giallorosso nell’agosto 2020 e il primo anno non è quindi nemmeno da contare visto che arrivò praticamente a inizio campionato e nei fatti dovette gestire l’esistente.

Roma aumento di capitale
Football Affairs
Dan e Ryan Friedkin (foto Andrea Staccioli / Insidefoto)

In meno di due anni da quando è proprietario della Roma, Dan Friedkin ha già fatto molto di più di numerosi suoi predecessori al vertice del club capitolino. Il magnate texano acquistò il sodalizio giallorosso nell’agosto 2020 e il primo anno non è quindi nemmeno da contare visto che arrivò praticamente a inizio campionato e nei fatti dovette gestire l’esistente. Senza contare che anche alcune delle presidenze più vincenti degli ultimi decenni – in primis quella di Silvio Berlusconi al Milan e quella di Andrea Agnelli alla Juventus – la prima stagione non portarono a nulla.

Nella stagione passata invece – dove a tutti gli effetti le scelte sono state tutte vidimate dalla sua proprietà – prima si è scelto di affidarsi a un allenatore noto in tutto il mondo quale José Mourinho e soprattutto è arrivato un trofeo, con il successo in Conference League. Cosa che sulla sponde giallorossa del Tevere non accadeva dal 2008 dall’ultima Coppa Italia ottenuta dalla squadra allora allenata da Luciano Spalletti. Molti, soprattutto sullo sponda biancoceleste del Tevere e fuori dalla Capitale, sono stati i distinguo sul valore della Conference League ma Mourinho e i suoi questa coppa avevano da giocare e questa hanno vinto.

Solo lo stadio nel progetto per Pietralata

Nello stesso tempo la società sembra essersi molto bene su due direttrici strategiche: quello del delisting dalla Borsa e quella dello stadio. Su quest’ultimo aspetto è stato individuato un’area municipale nella zona di Pietralata, a est della Capitale, e l’iter sta iniziando il suo percorso. L’iniziale esame urbanistico svolto sull’area individuata dalla Roma non ha infatti messo in evidenza elementi ostativi alla presentazione del progetto e la stessa società giallorossa ha espresso “grande soddisfazione per il clima di collaborazione che ha caratterizzato gli incontri con gli uffici comunali”.

Va detto che Friedkin sembra aver incontrato nell’attuale sindaco di Roma Roberto Gualtieri un interlocutore più interessato di quanto Jim Pallotta avesse in Virginia Raggi. Ma va anche detto che nei piani di Friedkin non parrebbe esserci qualcosa di gigantesco in termini di cubature come in quelli di Pallotta (cosa che aveva spinto più di qualche urbanista a non dare torto alla giunta Raggi). Tanto che lo stesso Gualtieri ha già precisato: «Da parte della Roma c’è un orientamento importante a fare lo stadio e basta, e non la parte residenziale, commerciale e una serie di annessi e connessi. Chiaramente però sarà uno stadio moderno».

Entrando invece in quello che è più strettamente il core business di questa testata, la notizia della settimana, oltre a quella dell’ingaggio di Paulo Dybala (sul quale si tornerà più avanti), è il delisting del titolo AS Roma dalla Borsa. Friedkin ha fatto un po’ fatica a ottener la soglia minima che consente di togliere l’azione dal listino di Piazza Affari, visto che prima di raggiungere ieri il target la proprietà giallorossa ha prima dovuto allungare i tempi dell’offerta pubblica d’acquisto (opa) e poi ha dovuto ritoccare in alto il prezzo. Ma alla fine l’obiettivo è stato centrato.

La notizia è di per sé una buona cosa per la società. Avere la società quotata a Piazza Affari non aveva più molto senso. Il flottante, ovvero il capitale libero di essere scambiato sul mercato e non in mano al primo azionista, era scarso, gli scambi erano pressoché inesistenti e l’ultima ricerca da parte di una banca d’affari sul titolo (uno dei sintomo di quanto un titolo è nel mirino degli investitori) è del 2001. E si trattava di uno studio dell’allora Banca Imi, allora advsior dell’operazione di ipo. Insomma più un obbligo che non un reale interesse.

Nei fatti quindi l’operazione Roma-Borsa a ritroso appare essere stata una richiesta di liquidità fresca (e anche un atto di amore) ai tifosi da parte dell’allora presidente Franco Sensi. Liquidità che non fu vana visto che servì e non poco ad allestire la squadra che nella stagione successiva vinse lo scudetto. Ma certo non si può dire che il titolo AS Roma fosse qualcosa di vivo da un punto di vista finanziario. La Roma infatti venne quotata nel maggio del 2000 a un valore di circa 2,4 euro e arrivò a un massimo di oltre 2,8 euro nell’aprile del 2001 quando i giallorossi capitanati da Francesco Totti erano in prossimità di vincere lo scudetto. Poi il titolo iniziò un tracollo vertiginoso e già nell’aprile 2003 viaggiava sugli 0,4 euro. Valore su cui è giaciuto per gli ultimi 20 anni, con qualche sparuto picco ma sempre ben al di sotto della quota di un euro per azione.

Quindi, a parte quelli che vendettero il titolo all’indomani del tricolore 2001, è stato praticamente impossibile realizzare dei guadagni sul titolo. E chi ha mantenuto in portafoglio l’azione non lo ha fatto per calcolo finanziario ma per l’amore verso la squadra: per potere essere soci e parte della squadra per la quale il cuore batte sin da bambini. Ovvero la cosa più bella per un tifoso.

Perché alla Roma conviene uscire dalla Borsa

Ma se la si guarda dall’ottica da chi gestisce la società è evidente che essere in borsa è più uno svantaggio che un vantaggio. Non a caso oggi tra le principali leghe più importante ci sono solo cinque squadre quotate in Borsa oltre alla Roma, ovverosia Juventus, Lazio, Manchester United, Lione e Borussia Dortmund. E la quotazione, per un club calcistico, viene ritenuta anche anacronistica (soprattutto se la proprietà ha già oltre il 90% del club come nel caso della Roma già prima dell’opa) perché impone procedure e processi che sono lenti e burocratici.

Uscire dalla Borsa permette alla società di essere più snella: non servirà più la comunicazione di ogni cosa nel minimo dettaglio (ma non vuol dire che il club non avrà i più alti standard di governance e legalità). Basti pensare che alla società giallorossa rimanere quotati costa circa 7 milioni di euro annui tra reportistica e anche una governance che risponda alle norme della Consob: si tratta di figure professionali dall’alto budget. Cifre che, è l’opinione del club, potrebbero essere investite meglio nelle altre priorità della società.

Si dirà allora perché club come Juventus o Manchester United, considerati delle best practice in termini di governance, sono ancora quotati? Oppure perché la Lazio è ancora in Piazza Affari?

Nel caso del club biancoceleste la situazione è molto simile a quella della Roma – scarso flottante, pochi scambi e nessuno studio da parte delle banche di investimento – e quindi avrebbe molto senso che anche la società di Claudio Lotito se ne andasse da Piazza Affari. La sensazione però è che il numero uno laziale, che acquistò il club quando era già in borsa, abbia al momento altre priorità piuttosto che investire (i Friedkin alla fine hanno speso circa 30 milioni per il delisting) per togliere il club da Piazza Affari e snellirne la gestione.

Il Manchester United invece è all’estremo opposto. I Red Devils, in virtù della loro gigantesca attività anche al di fuori dal campo, sono considerati in borsa più come una entertainment company che non come una società sportiva in senso stretto. Non a caso, a parte le ricadute economiche derivanti dalla Champions League, capita spesso che il titolo sia legato solo in parte ai risultati della squadra sul campo (specialmente quelli in campionato). Quasi che merchandising, diritti tv e tutto quello ruota nel mondo Manchester United abbiano affrancato l’azione, almeno nel breve periodo, dai risultati sul campo. Lo United tratta oggi a 11,3 dollari a New York, più o meno simile a quella di una decina di anni fa al momento della quotazione quando era tra le squadre più forti d’Europa (perse la finale di Champions League nel 2010/11 contro il Barcellona e conquistò la Premier League nel 2012/13 negli ultimi anni della trionfale era Ferguson).

La Juventus invece è un caso che sta a metà tra questi due opposti. Il club bianconero ha infatti un primo azionista molto forte (Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann con il 63,8% ma il 77,87% dei diritti di voto) e un secondo socio molto stabile (il fondo inglese Lindsell Train con l’11,3%) e quindi il flottante non è moltissimo. Tuttavia il titolo attira studi delle banche e interesse degli investitori, soprattutto dei fondi quando devono creare prodotti con all’interno azioni del settore sport & leisure. Detto questo però non è un mistero che nei suoi primi anni di presidenza, Andrea Agnelli valutò seriamente l’ipotesi di delistare il club da Piazza Affari per poi fare marcia indietro valutando che i costi non ne valevano la pena.

Tornando invece alla Roma, la vittoria in Conference League, il progetto nuovo stadio che sembra prendere forma e il delisting sono tutti aspetti volti a far tornare la Roma un grande club. Sinora il magnate texano ha capito molto prima di altri la nuova realtà: ha preso un top manager – Pietro Berardidal curriculum importante che conosceva bene sia l’America sia l’Italia. Ha ingaggiato un allenatore, José Mourinho, che non ha bisogno di presentazioni e tra i più vincenti d’Europa e ora sta accelerando sul mercato con il colpo Dybala (e forse arriverà anche l’olandese Wijnaldum).

Ma nello stesso tempo Friedkin sa che la Conference League non può bastare e che ora arriva il difficile: perché per fare tornare i conti (sinora i Friedkin hanno speso circa 600 milioni di euro nella Roma mettendo insieme tutto tra acquisto delle quote, versamenti per esigenze di capitale e opa) bisognare almeno tornare stabilmente tornare in Champions League (e la lotta è sempre serratissima per ottenere uno dei quattro slot disponibili) e perché per entrare essere definito un grande presidente in una piazza giustamente ambiziosa quale è Roma deve fare sì che la squadra possa tornare a compere seriamente per lo scudetto. E se per arrivare a un nuovo stadio o a un delisting sono sufficienti determinazioni e denaro per arrivare a vincere i trofei più prestigiosi bisogna anche saper superare avversari molto determinati che magari hanno più soldi in portafoglio.