L’ex calciatore Pietro Paolo Virdis ha rilasciato una lunga intervista a Il Corriere della Sera, durante la quale ha parlato della sua carriera, del “no” alla Juventus, della sua attività fuori dal campo e di come un viaggio in India lo abbia portato a iniziare a seguire il predicatore Sathya Sai Baba.
Calcio, ristorazione, ma non solo infatti. Virdis racconta anche del fascino dell’India e del predicatore Sai Baba: «Negli anni Novanta mia moglie ed io leggemmo di lui, ci incuriosì. Decidemmo di andare in India per vedere se i racconti su quell’uomo capace di fare tanto e bene per gli altri corrispondevano a verità. Beh, era tutto vero. Cominciammo a seguire i suoi insegnamenti. E di comportarci di conseguenza».
«Il no alla Juve nel 1977? Dovetti accettare di trasferirmi a Torino. Venivo da una mancata promozione in serie A e desideravo riportare in alto quella squadra. Avevo vent’anni ed era il mio sogno, alimentato anche da quanto aveva fatto Riva. Avrei voluto emularlo. Ma Gigi Riva era Gigi Riva, io ero un giovane che si affacciava sul palcoscenico e a un certo punto dovetti cedere. Non mi trovavo nella condizione di rifiutare e temevo di dover smettere di giocare. Forse avvertivo che avrei avuto qualche difficoltà nella Juve, anche se il mio non era un no diretto a quella squadra, era semplicemente un sì al Cagliari. Mi sarei comportato allo steso modo dovendo partire per Milano o Bologna. Pentito: all’inizio certamente, vennero anni difficili. Ma pensandoci oggi credo di aver fatto bene. Il tempo cambia le lenti con le quali guardi il mondo, ti guardi addosso».
«Mai in nazionale? Forse non ho mai colto il momento giusto per farne parte. C’è sempre stato qualche grande attaccante che ha occupato il ruolo, chiudendomi la porta d’accesso. Significa che magari non ero destinato o che non sono riuscito ad esprimermi al meglio nei momenti decisivi per indossare la maglia azzurra. Non ho responsabilità da distribuire a qualcuno. È andata così».
«Da quale compagno ho imparato di più? Penso di aver preso qualcosa da tutti i campioni che ho potuto osservare da vicino. Anche a questo serve il talento: ad assorbire ogni spunto utile, sin da quando sei ragazzo. Però, se penso ad esempio ai rigori, riconosco di essere cresciuto grazie a Paolino Pulici. Arrivò a Udine per sostituirmi perché mi ero infortunato. Lo tenevo d’occhio mentre calciava dal dischetto. Alzava la testa all’ultimo istante per non dare riferimenti al portiere. Un vero caposcuola».
«Cosa distingue un buon maestro tra gli allenatori? La duttilità. Per fare sì che ogni atleta renda al massimo. Magari basta un esercizio mirato, specifico. Oppure una frase, due parole pronunciate poco prima della partita. In questo era bravissimo Gigi Radice: sapeva trovare un tocco, il discorso perfetto per darti la carica. Ho ricordi preziosi di Nils Liedholm, di Mario Tiddia che mi accolse a Cagliari nell’80 quando chiesi a Boniperti, presidente della Juve, di farmi tornare nella mia vecchia squadra per ritrovare una sicurezza che credevo perduta. Tiddia fu fantastico, seppe guidarmi senza affrettare, senza forzare, ripristinando una condizione mentale perfetta. Tornai alla Juve l’anno successivo e vincemmo il campionato».