Che il calcio abbia ormai trasceso la propria identità di sport e sia entrato a pieno diritto nel mondo del business, così come hanno fatto tante altre discipline, è un dato di fatto pressoché innegabile. A testimoniarlo sono gli ingaggi stellari, l’inflazione dei prezzi di calciomercato e gli ingenti investimenti che ruotano attorno non solo ai club ma anche a comparti come il merchandising, i diritti TV e simili. Non è però tutto oro quello che luccica: se da un lato il business del calcio prospera, quando la macchina si inceppa, l’effetto domino è dietro l’angolo e può portare a un drastico punto di svolta nella storia delle squadre coinvolte. Analizziamo ora le luci e le ombre del business calcistico.
Luci: la massima diffusione e una prominenza mai vista prima del calcio
Se da sempre il calcio è stato uno degli sport più seguiti a livello mondiale, ma soprattutto in Europa e in America del Sud, è altresì vero che la prominenza del calcio non è mai stata così marcata come negli ultimi vent’anni. Dietro questa onnipresenza del mondo del pallone troviamo diversi fattori, non tutti sportivi. Le prestazioni tecniche, il talento dei giocatori e la magia del gioco del calcio sono gli ingredienti di base di questo scenario, ma che senza l’apporto del lato economico non avrebbero di certo conosciuto una tale espansione. Ogni aspetto del calcio può infatti essere monetizzato, per la gioia di investitori, proprietari, ma anche dell’economia più in generale.
Pensiamo banalmente alla vendita dei diritti TV, che nel 2019 hanno portato 100,2 milioni di euro nelle casse della Juventus, squadra per il momento ancora favorita dalle scommesse sul calcio di Betway e a quota 1,57 il 18 febbraio per la vittoria della Serie A, ma anche dei biglietti, che in casi come quello del derby della madonnina di un anno fa ha fatturato 5,8 di incassi per i rossoneri, delle magliette e dell’oggettistica della squadra, per passare poi alle entrate provenienti dagli sponsor, senza dimenticare che il calcio fa girare l’economia in settori al di fuori di quello sportivo. Pensiamo infatti a un evento come la Champions League e cosa può comportare per le economie locali, che traggono beneficio dall’afflusso di tifosi-turisti, discorso che si può applicare anche al settore della ristorazione e dell’intrattenimento di tutto il continente nelle serate delle partite di Champions e non solo. Deloitte, una delle agenzie di consulenza più importanti a livello mondiale, stima che nel 2018 il mondo del calcio europeo abbia avuto un valore pari ai 25,5 miliardi di euro. Ma cosa succede quando c’è qualche intoppo?
Ombre: i risvolti dei fallimenti e del Fair Play Finanziario
Il mondo a trazione fortemente economica del calcio implica però un grande fattore di rischio. I fondi degli investitori e delle proprietà non sono infiniti e, se si gestiscono le società di calcio come delle vere e proprie aziende da fatturato, ecco che ci si espone a rischi di mala gestione, bancarotta e simili.
La Serie A non è estranea a queste “vittime” del calcio moderno, con squadre blasonate come Palermo e Parma condannate a dover risalire la china delle serie minori dopo aver annunciato il fallimento. Uno degli esempi più eclatanti della condanna della bancarotta è il Leeds United, squadra inglese che negli anni ’60-‘90 era in lizza per il titolo dell’ora Premier League e di quella che era la Coppa dei Campioni, relegata adesso nel limbo dell’equivalente della Serie B inglese da ormai 10 anni dopo la bancarotta del 2007.
Il fallimento non è l’unico spauracchio delle squadre di calcio: introdotto dal comitato esecutivo UEFA nel 2009, il Fair Play finanziario punta all’estinzione dei debiti contratti in modo da creare un sistema equilibrato, pena l’esclusione dalle coppe europee organizzate dall’organo calcistico. Se il Milan è già caduto vittima del FPF la scorsa estate, l’ultima vittima illustre è sicuramente il Manchester City di Pep Guardiola, vincitore della Premier League la stagione passata e pretendente al titolo europeo di quest’anno.
Inutile evidenziare le ricadute economiche dell’esclusione dalla Champions League di non uno ma ben due anni: 15,25 milioni per la qualificazione alla fase a gironi, più un bonus vittoria di 2,7 milioni per le partite del girone (“solo” 900.000 € per il pareggio), senza contare gli introiti guadagnati a ogni turno passato (9,5 per gli ottavi, 10,5 per i quarti, 12 per la semifinale, 15 per la finale e 4 milioni per la vittoria della competizione).
Soldi sì, ma con entrambi i risvolti della medaglia: quando le cose vanno bene, il calcio è un vero business, ma le potenziali ripercussioni di un inghippo economico possono rivelarsi davvero disastrose.