Gli impatti del “Caso Khashoggi” sulla scalata saudita all’elite del calcio mondiale

Sono passati poco più di cento giorni da quando lo scorso 15 giugno, nel match inaugurale del Mondiale tra la sua Arabia Saudita e la Russia, Mohammed Bin Salman seguì…

Caso Khashoggi impatto calcio

Sono passati poco più di cento giorni da quando lo scorso 15 giugno, nel match inaugurale del Mondiale tra la sua Arabia Saudita e la Russia, Mohammed Bin Salman seguì la sfida in tribuna d’onore in compagnia di Vladimir Putin e Gianni Infantino. Il principe ereditario, inserito tra le dieci personalità più influenti del 2018, viveva il picco della sua popolarità e soltanto pochi giorni prima, lo scoop svelato dal Financial Times circa un coinvolgimento di Riyad nella nuova competizione firmata Fifa, si era aggiunto al grande piano di rilancio saudita capitanato da Vision 2030.

Spente le luci Mondiali di Russia 2018, il caso Khashoggi ha invece rappresentato un brusco stop nel progetto sportivo di MBS, e non solo per la risposta da parte della comunità internazionale, capace di reagire compatta allo sdegno dell’omicidio del giornalista nel consolato saudita di Istanbul. Implicazioni geopolitiche, finanziarie ma anche sportive. Mohammed Bin Salman è nell’occhio del ciclone e il suo piano di riforme interne sembra a rischio. Che qualcosa dalle parti di Riyad stesse scricchiolando, lo si era capito già nelle settimane precedenti all’omicidio di Jamal Khashoggi quando, nel mirino della frangia più conservatrice della società saudita, il figlio del sovrano sembrava vivere il suo primo vero momento di difficoltà sulla scena internazionale. Rispetto a quando trattammo le sue mire espansionistiche su queste colonne, il giovane riformista che avrebbe dovuto modernizzare il paese nei costumi e nelle tendenze, slegando la dipendenza dell’economia saudita dal petrolio e trasformando Riyad nel nuovo epicentro sportivo, turistico e finanziario del Medio Oriente, tante cose sono cambiate.

Il primo effetto causato dal terremoto Khashoggi ha innanzitutto costretto Mohammed Bin Salman a far tramontare il sogno d’acquisto del Manchester United: un progetto di quasi 5 miliardi di dollari che avrebbe dovuto convincere i Glazer – che pochi mesi fa avevano sottoscritto con la General Sport Authority un piano per lo sviluppo delle scuole calcio in Arabia Saudita – a cedere il 100% del club al futuro monarca. In cerca di stabilità in campo, ma da sempre un fuoriclasse sul piano commerciale (660 milioni di euro di fatturato, club tra i primi al mondo per ricavi commerciali e merchandising) dopo un rally in borsa dietro il quale si vociferava l’apertura del tavolo delle trattative tra la famiglia americana e nuovi investitori internazionali, cosa c’era dietro il piano di MBS di volersi instaurare a Old Trafford, progetto che ha avuto un’accelerata improvvisa nelle settimane precedenti l’omicidio di Istanbul? Una grande opera di rebranding, tanto per cominciare, ma se l’uso del calcio come strumento di soft power non fa più notizia a certe latitudini, dietro i Red Devils c’era la volontà di Mohammed Bin Salman di correre sullo stesso terreno del Manchester City e dell’Abu Dhabi United Group: quelli stessi vicini emiratini che, nonostante nello strappo tra le maggiori economie del Golfo col Qatar, abbiano deciso di restare accanto ai sauditi, ne minano però la corsa all’eccellenza sia sul piano finanziario, nel quale Dubai è diventata ormai la prima “city” mediorientale ed è diventata una delle prime trenta piazze al mondo dove fare business sia con occidente che oriente – Dubai è davanti a Malesia e Indonesia per emissione di Sukuk: le obbligazioni sharia-compliant avviate nel giro di pochi anni a creare un giro di business superiore ai 4.000 miliardi di dollari – , sia su quello sportivo, nel quale invece tra strutture, successi e la presenza di assoluti pesi massimi tra i propri tesserati, la ADUG ha reso il Manchester City un marchio globale. Ma non è finita qui perché, se quella con gli Emirati Arabi si tratta di una semplice corsa all’eccellenza che spesso si instaurano tra le ricche monarchie del Golfo, anche quelle alleate, la volontà di Riyad era anche quella di fermare l’ascesa di beIN Sports e degli odiati qatarini, i quali detengono i diritti tv della Premier League in tutta l’area mediorientale.

Se la partnership con la Liga spagnola (formazione di giocatori e tecnici sauditi in loco, apertura di academy a Riyad e progetti di fan-engagement) ha dato i frutti sperati soltanto a metà, l’obiettivo di Mohammed Bin Salman era quella di alzare il tiro rilevando uno dei club più conosciuti e quotati al mondo, che proprio in Arabia Saudita gode di un largo seguito

Discussioni animate e lancio di accuse reciproche: cronache dell’ultimo meeting della Fifa a Kigali, in Rwanda, raccontano di un concitato ritrovo che non ha fatto altro che aumentare lo strappo all’interno del massimo organo mondiale. Mentre la Uefa chiede una riforma del calendario e guarda al 2021, quando le competizioni continentali e tante altre carte in tavolo potrebbero cambiare; Infantino, invece, pensa a una nuova grande competizione mondiale: una manifestazione che avrebbe il calcio d’inizio nel 2021 e si disputerebbe su base annuale, dietro la quale ci sarebbe un appoggio non poco indifferente come quello saudita. 25 miliardi di dollari, serviti però su procura. Come svelato infatti mesi fa dal Financial Times, a voler finanziare il nuovo progetto sarebbero i giapponesi di SoftBank Group: multinazionale giapponese delle telecomunicazioni con partecipazioni in giganti del calibro di Uber, Alibaba e WeWork; 38° società più grande al mondo secondo Forbes, con fatturato vicino ai 9 migliaia di miliardi di dollari che, due mesi fa, ha presentato con il governo saudita un progetto di 200 miliardi relativo alla costruzione del più grande sistema di sfruttamento di energia solare del mondo.

In attesa di giorni migliori, la reputazione di Riyad e dell’Arabia Saudita è intanto messa a dura prova. Dopo lo stop alla vendita di armi, l’opinione pubblica chiede anche allo sport di fare un passo indietro: Nole Djokovic e Rafa Nadal, per esempio, sono attesi a uno evento tennistico a Jammah, in programma a dicembre, ma Amnesty International chiede agli atleti di desistere. E se Vision 2030 merita un discorso a parte, ci si chiede anche cosa ne sarà di Qiddiya Investment Company (QIC): la società creata dal fondo per gli investimenti pubblici in Arabia Saudita e amministrata dal ministro del commercio ed ex atleta di karate , Almamoun Alshingiti. Lo scopo di QIC è quello di allestire il più grande piano di avviamento allo sport che si sia mai visto in Medio Oriente, attraverso la costruzione di strutture sportive e alla presa di coscienza dell’importanza della pratica sportiva tra la popolazione, la cui partecipazione attiva dovrà passare dal tasso del 13% al 40%. A spingere i progetti di Qiddiya Investment Company ci sono una buona parte di quel tesoretto di 600 milioni che Vision 2030 ha riservato alla sezione “sports and entertainment”. Articolato in cinque fasi, la cui ultima si chiuderà nel 2035, il via al progetto in agenda nel 2021 è ora a rischio a causa della necessità di partneship e di know how estero.

Un embargo come quello che sembra profilarsi all’orizzonte è l’ultima cosa che Mohammed Bin Salman può permettersi: il principe è in trincea, e questa volta non basterà lo sport a salvarlo.