Caos ai seggi della Catalogna, caos al Camp Nou e veleno nelle parole di un Gerard Piquè in lacrime: “Franchisti”. Barcellona-Las Palmas alla fine si è giocata con una soluzione-compromesso: a porte chiuse.
Una decisione, presa in extremis a pochi minuti dal fischio d’inizio del match in programma nel giorno del referendum indipendentista catalano.
“Non si gioca”, anzi si’: i dirigenti del Barca volevano forzare la mano alla Federcalcio di Madrid e anche ai ‘Mossos’ e non scendere in campo, ma i giocatori hanno chiesto di evitare lo 0-3 a tavolino e ogni tipo di scontro.
La partita (terminata 3-0) si è così giocata in un clima surreale (dove c’è stato però spazio anche per un piccolo fori programma con un isolato invasore di campo, subito bloccato), senza che però l’aspetto sportivo riuscisse a prevalere.
Anzi. “Quando in Spagna non si votava c’era il franchismo: io sono orgoglioso di essere catalano”, ha rincarato Gerard Piquè, difensore del Barcellona ma soprattutto grande simbolo catalano, al termine del match, parlando in lacrime.
“Il Pp e il capo del governo Mariano Rajoy mentono, dicono che siamo una minoranza ma siamo milioni. In sette anni mai una forzatura, mai una violenza. Ma quale sia il suo livello si vede, va in giro per il mondo e non sa neanche l’inglese…”.
“Quando c’e’ una consultazione elettorale, si puo’ votare si’, si puo’ votare no, si può lasciare scheda bianca. Ma si deve votare, e’ un diritto in democrazia e tutti dovremmo difenderlo”, ha detto Piquè.
“Invece oggi la Guardia Civil ha fatto quel che ha fatto per impedirlo: io sono e mi sento oggi più che mai catalano e ne sono orgoglioso”, ha aggiunto Piquè prima di lanciare un messaggio alla Federazione (RFEF): “Se pensa che io sia un problema, farò un passo indietro in vista del Mondiale”.
Non era stato da meno il prepartita, con notizie che si sono susseguite e smentite l’un l’altra. Di fatto, il Barca è sceso in campo al fianco “del diritto democratico dei cittadini catalani” ad esprimersi col voto. E con una maglia a strisce gialle e rosse, quella che rappresenta la bandiera catalana, ma solo per il riscaldamento.
Il Las Palmas invece ha cucito sul petto la bandiera della Spagna: “E’ il nostro voto a una consultazione immaginaria, che nessuno ha mai convocata: crediamo nell’unita’ della Spagna”.
Nel giorno più difficile per l’unità della Spagna anche il calcio che conta con Messi e compagni ha detto la sua, minacciando a lungo di non giocare affatto.
“Siamo ‘mes que un club’, non dobbiamo andare in campo”, aveva tuonato nella mattinata Augustì Bendito, dirigente del club e rivale del presidente Bartomeu.
Da Madrid, la federazione e poi la Liga avevano opposto il loro no alla richiesta di rinviare il match.
A quel punto, il presidente Bartomeu ha preso contatto con i ‘Mossos‘, la polizia catalana, per vedere se c’erano le condizioni di sicurezza in una regione in cui la conta dei feriti per gli incidenti ai seggi supera le 300 persone.
I dirigenti della polizia catalana sono andati allo stadio, hanno parlato con gli arbitri, hanno visto che le migliaia di tifosi fuori dai cancelli ancora chiusi erano tranquilli, e hanno deciso: si può giocare.
E’ stato a quel punto che il tam tam dei media ha annunciato il rinvio della partita. Ma era una decisione unilaterale dell’esecutivo del club, con un sicuro 0-3 a tavolino e il rischio di sanzioni anche più pesanti.
A quel punto sono intervenuti i giocatori. “Il Barcellona condanna i fatti accaduti in Catalogna, volti a prevenire il diritto democratico dei cittadini ad esprimere liberamente il proprio voto”, e’ stata la dura condanna del club simbolo della Catalogna.
Ma i giocatori, da Suarez a Messi, a avevano gia’ chiesto di giocare. “Non potevamo subire una penalizzazione di punti: abbiamo giocato a porte chiuse non per motivi di sicurezza, ma come segno di protesta”.