Premier League vs Serie A anni '90, competitività interna e successi europei paralleli

Spesso ci si chiede perchè le squadre di Premier League, espressione del campionato più ricco del mondo, fatichino così tanto a vincere in Europa. La domanda, solitamente, è accompagnata…

Juventus Vs Chelsea Champions League

Spesso ci si chiede perchè le squadre di Premier League, espressione del campionato più ricco del mondo, fatichino così tanto a vincere in Europa. La domanda, solitamente, è accompagnata da una considerazione: “quando eravamo i più ricchi vincevamo sempre noi”. Una affermazione frutto di uno sciovinismo calcistico che fornisce un quadro solo parziale della situazione.

In realtà si possono osservare nella Premier League e nella Serie A degli anni 90 dei percorsi paralleli in cui l’indice di successo europeo delle squadre segue un andamento simile e dopo il boom tende a scendere nettamente anche in relazione ad una accresciuta competitività interna.

Questo accade un po’ perchè non si può sempre vincere, un po’ perchè – probabilmente – un campionato di alto livello, eccessivamente competitivo, genera un logorio psicofisico che preclude alcuni obiettivi.

20 allenatori più pagati al mondo 2017
Antonio Conte, tecnico del Chelsea (Insidefoto.com)

Consideriamo due periodi di riferimento omogenei.

Per la Serie A una fase di dominio europeo dal 1991 al 1998 (8 anni) e una fase di maturazione dal 1999 al 2002. Per la Premier league una fase di dominio 2005-2012 e una fase di maturazione 2013 – 2016.

In entrambi i casi, a volerla vedere in termini economici, si potrebbe individuare una fase di “nascita”. Che nel caso italiano si può far risalire al 1980-81, primo campionato con la riapertura delle frontiere, momento dal quale si affermò un modello Serie A basato sull’ingaggio di grandi campioni stranieri. Nel caso della Premier League invece questa fase non può che iniziare nel 1992-93 con la fondazione della Premier League stessa.

Ovviamente i presupposti economici e organizzativi sono diversi, ma i riflessi della competività interna dei due sistemi e il loro risultante in termini di successi europei sono incredibilmente simili se non addirittura paralleli.

L’idea di fondo è che l’ultimo quadriennio (2013-2016) rappresenti per il calcio inglese la fase di maturazione di un sistema di competitività interna che dopo i successi degli 8 anni precedenti ovvero dal 2005 al 2012 è giunto a maturazione.

Nel dettaglio dal 2005 al 2012 le inglesi hanno collezionato 16 piazzamenti europei alzando 3 Champions league (Liverpool 2005, Manchester United 2008, Chelsea 2012) più 5 finaliste (Arsenal 2006, Liverpool 2007, Chelsea 2008, Manchester United 2009 e 2011) e 6 semifinaliste (Chelsea 2005, Manchester United e Chelsea 2007, Liverpool 2008, Chelsea e Arsenal 2009, oltre a 1 finalista in Europa League (Fulham 2010) e 1 semifinalista (Liverpool 2010).

Dal punto di vista del ranking l’Inghilterra arrivò al vertice nel 2008 e vi rimase fino alla fine del periodo, nel 2012.

Dal 2005 al 2012 la Premier league venne vinta da 3 squadre, ma il Manchester City rappresentò la sostanziale eccezione (prefigurando il futuro) rispetto al duopolio Chelsea (3 titoli) Manchester United (4 titoli) che si inserirono in un sistema in cui ci vollero 8 anni per vedere 7 diverse squadre piazzarsi nei primi 4 posti.

Nei quattro anni successivi (2013-2016), invece, sono state 4 le società inglesi a vincere il campionato (United 2013, quindi City, Chelsea e Leicester), in un quadro in cui la competivitità si è accresciuta e sono state 7 le squadre ad essere entrate nei primi 4 posti.

Secondo i parametri considerati la competitività di vertice è quasi raddoppiata.

Anche in questo caso giusto evidenziare come il ranking inglese peggiorò passando dal secondo posto 2013 al terzo posto 2016.

 

Cosa successe invece in Italia negli anni ’90?

Dopo 8 anni dal 1991 al 1998 che hanno avuto in comune con l’Inghilterra il dominio sostanziale di 2 squadre vincitrici (di là Manchester United e Chelsea, da noi Milan e Juve con 4 e 3 scudetti, a cui si aggiunge quello della Sampdoria del 1991) si è assistito ad un quadriennio 1999-2002 con ben 4 diversi campioni. Fu il periodo delle famose 7 sorelle, termine coniato all’inizio del campionato 1998-99 quando il Milan di Zaccheroni si impose sulla Lazio e sulla Fiorentina allora presieduta da Mario Cecchi-Gori.

Curioso come in quel quadriennio le squadre piazzate nei primi 4 posti della serie A furono 7, con una alternanza – in questo senso – anche superiore rispetto a quella inglese visto che da noi nessuna formazione arrivò 4 anni su 4 nelle prime 4 (cosa che hanno fatto City e Arsenal in Premier). Certo, non ci fu il roboante Leicester, ma le vittorie di Roma e Lazio nel quadro storico della serie A rappresentano una evidente discontinuità.

Quel ciclo, in Italia, come si ricorderà, è miseramente finito con i fallimenti di Fiorentina e Parma e quelli di fatto di Roma e Lazio, salvate dallo spalmadebito fiscale.

Il parallelismo è anche europeo. L’Italia negli 8 anni dal 91 al 98 ha ottenuto 19 piazzamenti europei cosi divisi: 2 Champions vinte (Milan 1994, Juventus 1996) più 5 finali disputate (Samp 1991, Milan 1992, Milan 1995, Juventus 1997 e 1998) a cui aggiungere 5 Uefa vinte (Inter 1991, Juve 1993, Inter 1994, Parma 1995, Inter 1998), 5 finali disputate (Roma 1991, Torino 1992, Juve, 1995, Inter 1997, Lazio 1998) e 2 semifinaliste (Genoa 1992 e Cagliari 1994).

Dal punto di vista del ranking siamo stati primi dal 1991 fino al 1999 subendo nel 2000 il sorpasso della Spagna.

Nel quadriennio 1999-2002, quando la competitività interna della Serie A crebbe, raccogliemmo briciole europee: 3 piazzamenti e 1 trofeo. La semifinale Juve 1999 in Champions, la Uefa vinta dal Parma nello stesso anno e le semifinali di Milan e Inter sempre in Uefa nel 2002.

Sono 3 piazzamenti e 1 trofeo esattamente come i 3 piazzamenti e 1 trofeo delle inglesi nell’ultimo quadriennio: l’Europa League al Chelsea 2013, la semifinale Europa league del Liverpool 2016 e 2 semifinali Champions (City 2016 e Chelsea 2014).

Ovviamente dagli anni ’90 agli anni 2000 bisogna ricordare che le regole di ammissione alle coppe europee cambiarono (andrebbero citate le finali di Coppa delle Coppe – che però non esiste più dal 2000 – vinte da Parma e Lazio nel 1993 e nel 1999), ma al di là delle sfumature (e del fatto che probabilmente il nostro calcio espresse una cifra tecnico-tattica superiore, in un calcio in via di globalizzazione ma non ancora pesantemente influenzato dalla legge Bosman) il quadro macro può essere sovrapposto.

Quel che rimane straordinario nel caso italiano è soprattutto il fatto che in quegli 8 anni furono ben 10 le squadre piazzate o vincitrici di una coppa (Sampdoria, Milan, Juventus, Inter, Roma, Torino, Genoa, Cagliari, Parma e Lazio) mentre nel caso dell’Inghilterra furno “solo” 6 (Liverpool, Chelsea, Arsenal, Manchester United, Fulham). Ma anche qui certamente pesa il diverso meccanismo di ammissione alla Champions League.

 

Ovviamente i presupposti economici dei due periodi sono molto diversi. E questo ci porta a fare un ragionamento anche sugli esiti dei due sistemi, sui quali nelle fasi cosiddette di maturazione è sempre stata (non a caso) la Spagna – che non ha mai avuto una competitività al vertice così alta – a giovarsi della situazione guadagnando prestigio, trofei e posizioni nel ranking europeo.

La Serie A degli anni ’90 era dominata dal mecenatismo. I proprietari gestivano le squadre in perdita e questa tendenza aumentò soprattutto quando i bilanci vennero arricchiti dai soldi delle televisioni (nel 1996-97 ci fu il primo campionato interamente trasmesso in tv, i primi posticipi in pay tv erano del 1993-94) mentre i presidenti continuarono a spendere cifre spesso superiori ai ricavi annuali dei club.

La Serie A sembra avanzare per crisi cicliche: prima le fallite di cui sopra, poi la Juve travolta da Calciopoli, quindi il declino di Milan e l’Inter. Questo per mancanza di un business model di lungo periodo e di sistema, che è tratto tipico del mecenatismo: sfarzoso quanto estemporaneo.

Ecco perchè dopo i fasti degli anni ’90 (fase di dominio, o di crescita) e la fase “matura” a cavallo del 2000 il nostro sistema è imploso. Finiti i successi dei club medi (dal 2005 al 2015 abbiamo avuto solo 4 semifinaliste europee: Parma 2005, Fiorentina 2008, Napoli e Fiorentina 2005) si è assistito agli exploit europei di Milan (finale 2005 e Champions 2007) e Inter (Champions 2010), oltre alle 2 finali della Juventus (2003 e 2015): tutti risultati frutto della ricchezza individuale del club più che ascrivibili ad un risultato di sistema.

La Premier invece sembra destinata a consolidare la sua posizione in termini di competitività interna, ma questo potrebbe nel lungo periodo risultare penalizzante (come già si è verificato e come si sta verificando fino a questo momento nelle coppe 2017 con l’eccezione del Manchester United candidato al titolo) dal punto di vista dei risultati europei.

Il campionato inglese ha una ricchezza che deriva soprattutto dai diritti tv ma anche dall’ottimo mix dei ricavi sui quali pesano pure le sponsorizzazioni (ricavi commerciali che insieme ai premi per le coppe europee al momento sono quelli che fanno la vera differenza tra grandi club dal bacino d’utenza mondiale e piccoli club più localizzati) e gli stadi (biglietti, merchandising, ristorazione).

In Inghilterra, lo diciamo per completezza, il mecenatismo sembra sopravvivere solo come momento fondativo necessario per portare una squadra a competere ai massimi livelli. E’ stato così per il Chelsea dal 2004, anno dell’approdo del russo Roman Abramovich, e per il Manchester City portato in 4 anni (dal 2008 al 2012) al titolo dallo sceicco Mansour. Ma in entrambi i casi, oggi, è giusto dire che le due società possono prescindere dagli apporti di capitale straordinari dei proprietari.

Il percorso sembra quindi scritto. Non avere l’Europa per le squadre di Premier – al netto delle perdite economiche legate ai mancati introiti – sarà in futuro un vantaggio competitivo non indifferente. Vincere tutto, in condizioni di competitività interna così accentuata, è veramente difficile. 

Non pare casuale che in questa stagione 2016-2017 mentre in Europa l’Arsenal, il Manchester City e il Tottenham hanno salutato anzitempo la competizione, queste stesse squadre in campionato hanno arrancato proprio negli scontri più duri, visto che a fare più punti negli scontri diretti tra le prime 6 sono state fin qui Chelsea (13 in 8 gare su 10 da disputare) e Liverpool (18 su 10 da disputare).

milan cordata galliani
Adriano Galliani (foto Insidefoto.com)

Quale futuro, invece, per la nostra Serie A?

Alla luce delle considerazioni qui sopra per tornare a competere ai massimi livelli europei le nostre squadre dovranno innanzitutto dotarsi di un modello di business sostenibile nel lungo periodo. Cosa che al momento solo la Juventus sembra avere. Grande interesse viene riposto naturalmente nelle nuove proprietà di Milan e Inter che – un po’ tutti i tifosi ne sono convinti – dovranno operare come fatto nei primi anni del nuovo corso da Chelsea e Manchester City (con il vantaggio, nel caso delle milanesi, di poter partire da brand già molto forti sul piano internazionale).

Ma nel lungo periodo l’impressione è che se l’Italia ha a cuore il proprio destino in termini di competitività anche europea il modello migliore sia quello spagnolo rispetto a quello inglese, ovvero un pool di campioni nazionali (il campo e i bilanci diranno quali) seguiti da un novero di outsider in grado di diventare i Siviglia d’Italia, riportando anche nella seconda competizione europea qualche risultato di cui gioire.