Le squadre saudite, che nell’estate 2023 erano state le protagoniste del calciomercato internazionale investendo da sole poco meno di un miliardo di euro, quest’anno hanno tenuto un profilo molto più basso. Alla chiusura della sessione estiva in Europa i club della Saudi Pro League avevano speso circa 400 milioni nelle compravendite di giocatori per poi dare una accelerata di circa 100 milioni nel loro ultimo giorno di mercato (nel golfo le operazioni hanno chiuso il 2 settembre rispetto alla deadline del 30 agosto nei top campionati del vecchio continente). Complessivamente quindi le società del campionato arabo hanno speso 500 milioni di euro contro i 950 milioni dell’estate precedente.
Non solo, ma se nel 2023 si erano trasferiti nel Golfo giocatori del calibro di Benzema, Neymar, Mahrez e Kanté (dopo che nella stagione precedente Cristiano Ronaldo aveva aperto la strada), quest’anno, complice anche la mancata intesa su Osimhen e il no di Dybala all’ultimo momento, l’acquisto più costoso della Saudi Pro League è stato Moussa Diaby, passato dall’Aston Villa all’Al-Ittihad per 60 milioni. Una miseria confrontata con l’anno scorso, anche dal punto di vista tecnico.
È evidente che alla luce di questi numeri sia lecito chiedersi se l’Arabia Saudita, che pareva essere la nuova potenza emergente del panorama internazionale, solo un anno dopo da quella che sembrava un’offensiva duratura stia tornando a più miti consigli, sul solco di quanto avvenne in Cina qualche anno addietro.
Qualche indizio può lasciare presagire questa inversione di tendenza, dato che il torneo saudita ha dovuto fare fronte a una riduzione degli investimenti da parte dei club per la volontà del governo di rallentare sul fronte economico. Inoltre sono intervenute norme che nei fatti hanno un po’ legato il potere dei acquisto delle società della penisola arabica. Per esempio i club della Saudi Pro League l’anno passato avevano otto posti a disposizione per gli stranieri, ma di questi solo sei potevano giocare nelle competizioni continentali e uno di questi deve essere asiatico. Poi, se è vero che poi nel dicembre del 2023 la lega araba ha allargato a dieci il numero degli stranieri, nello stesso tempo ha stabilito che due di questi devono essere nati non prima del 2003 e ha ridotto da 30 a 25 il numero di giocatori tesserabili.
L’insieme di questi temi è stato tra i principali punti di discussione dello Sport Europe Roadshow, un evento organizzato dai ministri sauditi dell’Investimento e dello Sport in quattro diverse città europee (Stoccolma, Londra, Milano e Monaco di Baviera). Una kermesse che aveva quale obiettivo quello di invitare gli investitori occidentali (manager di club europei, imprenditori e gestori di fondi) a investire sui club della Saudi Pro League oltre che a discutere di altri temi (sportivi e non) come la Formula 1, il golf e gli investimenti nel settore energetico.
Questo, per onestà di cronaca, al netto dei problemi etici che porta con sé investire in un Paese sicuramente dalle grandi opportunità ma che sicuramente non è all’avanguardia sui temi dei diritti umani e di genere.
Al di là dei discorsi politici ed etici, l’evento insomma è stata l’occasione per fare il punto sul movimento saudita con operatori specializzati ed investitori nei Paesi del Golfo.
I nodi sauditi tra qualità della vita e questioni tecniche
Da quanto emerso, al momento quel che si può dire è che l’Arabia Saudita continuerà a puntare sul calcio per almeno dieci anni, quando cioè avrà l’opportunità (ormai quasi sicura essendo l’unica candidata) di ospitare la Coppa del Mondo 2034. Una manifestazione, per altro, per la quale il Paese è pronta a costruire addirittura undici nuovi stadi.
Nello stesso tempo però nella stagione passata i sauditi si sono resi conto che, nonostante i soldi, non sono pochi i nodi da sciogliere per lanciare un movimento dal nulla. E non a caso l’obiettivo del roadshow era quello di ottenere capitali e competenze dal mondo del calcio europeo, con l’intento di rivitalizzare un campionato che sta perdendo interesse da parte di pubblico, emittenti televisive e giocatori.
In questo scenario, la prima cosa da notare è che l’attuale struttura della Saudi Pro League, con il potentissimo fondo sovrano PIF che è proprietario delle quattro principali squadre (Al-Hilal, Al-Nassr, Al-Ittihad e Al Ahli), ha creato non pochi squilibri all’interno del movimento: l’Al-Hilal per esempio ha vinto 34 partite consecutive. E non sorprende quindi che gli ascolti televisivi a livello internazionale siano bassissimi e gli stadi parzialmente vuoti. Per esempio, per la stagione 2023/24, la Saudi Pro League ha dichiarato ricavi complessivi di 1,8 miliardi di Riyal sauditi (circa 444,5 milioni di euro), una cifra di poco superiore al fatturato della sola Juventus, ma con spese molto superiori anche se mai svelate.
Tra le problematiche emerse vi sono poi quelle più strettamente legate alla vita dei giocatori. In primo luogo numerosi campioni hanno capito ormai che, per quanto coperti d’oro, la qualità della vita in Arabia non è la stessa che persone con molti soldi a disposizione come sono i giocatori di calcio possono avere nei Paesi europei. E non a caso molti ora pensano bene ora prima di trasferirsi nel Golfo, se non rifiutano addirittura come nel caso di Dybala.
C’è poi da non sottovalutare una questione tecnica. Il campionato saudita è considerato poco allenante e per un giocatore nel fiore degli anni trasferirsi nel Golfo equivale spesso a dire addio a una carriera di alto livello e ad andare in pensione anticipata. Si pensi per esempio alle polemiche sorte in patria per le prestazioni in nazionale di Marcelo Brozovic agli scorsi Europei. L’ex interista, dopo un anno nel’Al-Nassr, è stato nell’occhio del ciclone reo di non avere più lo smalto di una volta per avere “perso” una stagione in Arabia. Per non parlare della reazione del ct della nazionale olandese Koeman alla notizia che Bergwijn andrà a giocare nell’Al-Ittihad. «Con noi ha chiuso», ha dichiarato l’ex giocatore e allenatore del Barcellona, ora sulla panchina degli Oranje.
Insomma se l’intendimento dei Sauditi è quello di puntare ancora sul calcio per almeno un decennio ancora, i problemi non sono pochi.
Stipendi e investimenti, rivista la strategia sul mercato
In questo scenario una delle vie che si vogliono perseguire è quella di creare una maggiore competizione. Per questo sono necessarie proprietà diversificate. In questo senso una prima mossa è stata compiuta: l’Al-Qadsiah, la società che ha cercato senza successo di portare Paulo Dybala a Khobar, è stato affidata a Saudi Aramco, la potentissima compagnia petrolifera nazionale. L’obiettivo è di avere nella lega una squadra in più dalle alte potenzialità oltre a quelle possedute da PIF.
Un altro punto sul quale il movimento sembra indirizzarsi è quello di importare competenze non solo tecniche (giocatori e allenatori) ma anche manageriali europee alla guida dei club. Questa mossa dovrebbe consentire una maggiore conoscenza nella gestione dei club e in sede di mercato evitare di passare per sprovveduti durante le negoziazioni, pagando prezzi superiori a quelli necessari. Una strada già intrapresa, considerando che in Arabia ci sono oggi dirigenti come Guido Fienga (ex amministratore delegato della Roma oggi all’Al-Nassr), ma ancora in evoluzione. Senza dimenticare l’aspetto più prettamente calcistico considerando che Roberto Mancini è ct della nazionale mentre Gigi Di Biagio è stato nominato commissario tecnico dell’Under 21 saudita.
Infine, ma certo non meno importante, l’indirizzo strategico è quello di continuare e non lesinare sugli ingaggi, mossa considerata necessaria per convincere i giocatori a trasferirsi nel Golfo, ma spendere meno per i cartellini. Questo per evitare per quanto possibile che i soldi sauditi vadano ad impinguare le casse dei club europei, che sono considerati i veri concorrenti nell’acquisizione dei grandi giocatori. Come dimostrato anche dal caso Osimhen, in cui l’Al Ahli aveva messo sul tavolo una proposta da 40 milioni annui al giocatore e 80 milioni al Napoli, salvo tirarsi indietro dopo la richiesta del club di De Laurentiis di alzare l’offerta per il cartellino.
Si spiega anche così, fa notare un operatore, la grande offensiva lanciata dai club sauditi a mercati europei chiusi. In pratica la mossa intendeva sfruttare a proprio favore una finestra di mercato (valida in entrata per i club sauditi) per acquisire a prezzi se non di saldo ma quasi, giocatori in esubero o non ritenuti necessari, da Smalling con la Roma a Simakan del Lipsia e Danilo Pereira del PSG, passando per Bergwijn di cui abbiamo già detto sopra.
Al di la delle questioni di mercato, però, la tappa milanese del roadshow ha messo in evidenza anche i vantaggi economici per gli operatori occidentali legati a investire nella Saudi Pro League. Tra questi entrare in progetto ambizioso che culminerà nel Mondiale tra dieci anni. E in questo quadro i sauditi offrono agli investitori stranieri un regime fiscale vantaggioso: zero tasse sulle persone fisiche, un’aliquota unica del 20% per le società, e un’IVA al 15%. Inoltre, grazie a accordi bilaterali con molti Paesi (compresa l’Italia), non è prevista doppia tassazione tra le nazioni.
Insomma se i problemi di crescita della Saudi Pro League non sembrano pochi, la corsa verso i Mondiali 2034 è appena iniziata e con essa, al netto dei problemi etici di cui sopra, gli investimenti sauditi nel calcio arabo ed europeo.