ARTICOLO A CURA DI LUCA FILIDEI
Quando nel 2003 entrava nella NBA, a soli diciotto anni e proveniente dalla St. Vincent-St. Mary HS, i 38.387 punti segnati dall’icona Kareem Abdul-Jabbar dovevano sembrargli qualcosa di indefinibile, più accumunabile alla fantascienza che alla realtà. The Captain, com’era soprannominato Jabbar, li aveva registrati in ben 20 anni di carriera, spesi tra Milwaukee Bucks e Los Angeles Lakers tra gli anni Settanta e Ottanta.
Due decadi che lo avevano reso una leggenda, chiaramente amplificata dall’era dello “showtime”, quella con Magic Johnson e della “dinastia Lakers”, e poi da quel tiro – lo skyhook (gancio cielo) – che costringeva gli avversari a guardare un canestro praticamente automatico con il risultato di cristallizzare le sue percentuali al tiro a oltre il 50% per 19 anni su 20 di carriera.
LeBron, prima scelta assoluta di quel fantastico Draft datato 2003, accedeva all’NBA attraverso una squadra – i Cavs – che in parte replicavano i primi Bucks di Jabbar. In quel caso Milwaukee, fondata appena un anno prima, era stata l’esito dell’espansione della lega, in pratica un “lasciapassare” alla società verso la prima scelta assoluta del Draft 1969 che coincideva proprio con The Captain.
Entrambe con un record perdente, attraverso le “new entry” riuscirono velocemente ad affermarsi come contender ai playoff, conquistando addirittura in tempi rapidissimi il Larry O’Brien Championship Trophy nel caso dei Bucks, ulteriormente potenziati con l’acquisto nel 1970 di Oscar Robertson.
Quasi quarant’anni dopo, James, stella assoluta di Cleveland, ha l’occasione di replicare Jabbar portando il trofeo nel suo Stato – essendo cresciuto ad Akron (Ohio) –, ma la gioia viene negata dal trio Duncan-Ginobili-Parker dei San Antonio Spurs, capaci di annullare i Cavs con un netto 4 a 0.
Nel 2010, dopo un’Olimpiadi vinta e una lista infinita di prestazioni irreali, giunge il momento di “The Decision”, ovvero la scelta di trasferirsi al sole di Magic City. Con gli Heat compone un big three praticamente illegale, accostandosi a Chris Bosh e al “capitano” Dwyane Wade, che un anello in Florida l’aveva già conquistato insieme a Shaq.
Qui alcune statistiche si ridimensionano, non si toccano certo i 31.4 punti per partita della stagione 2005-06, ma nel 2012 arriva il tanto aspirato anello di campione NBA, poi addirittura replicato nel 2013.
Tuttavia, dopo quattro stagioni a Miami, LeBron torna a casa, nella sua Cleveland a cui aveva fatto una promessa rimasta incompiuta: la vittoria del Larry O’Brien Trophy. A trent’anni non è più il giocatore che ricordavano i tifosi dei Cavs. I due titoli conquistati con gli Heat lo hanno rafforzato, reso più consapevole dei propri mezzi e delle necessità della squadra, persino dei “momenti” delle partite. In Ohio trova ancora dei Cavaliers con record perdente (33-49 l’anno precedente), riuscendo però a comporre un altro grande trio con Kyrie Irving e Kevin Love.
Il campionato arriva così nel 2015-16, superando Golden State per 4-3 e chiudendo un cerchio iniziato nel lontano Draft 2003.
Ottenuto il successo, per James dopo qualche anno si apre una nuova fase della carriera e ad aspettarlo è proprio l’ex squadra di Abdul-Jabbar, quei Los Angeles Lakers in pieno “rebuilding” dopo il ritiro dell’icona Kobe Bryant. Nel 2020, incluso in un roster con Rajon Rondo, Dwight Howard e Anthony Davis, conquista il suo quarto anello ottenendo anche il riconoscimento come MVP delle Finals. Da lì in poi i Lakers affrontano una fisiologica seconda ricostruzione, tradotta con un’uscita al primo turno di playoff e una stagione con record negativo (33-49), che LeBron non vorrebbe certamente replicare nella regular season in corso.
Nel frattempo, però, dopo la partita della scorsa notte che lo ha definito come il miglior marcatore all time della NBA, il numero 6 dei LAL può concedersi un momento di riflessione sul significato di questo record. Perché superare una leggenda come Kareem Abdul-Jabbar vuol dire aver profondamente contribuito a rendere ciò che è (ora) questa lega, stabilendo un fil rouge con altre epoche, con i miti del passato – da Michael Jordan a Kobe Bryant, da Karl Malone a Wilt Chamberlain – che poi rappresentano il gotha di questo fantastico sport.
Guardare i 38.387 punti di The Captain da un’altra prospettiva cambia ogni cosa. Ora c’è LeBron lì in cima. E chissà se in futuro qualche rookie farà la stessa considerazione che James probabilmente fece nel 2003. Un record inarrivabile… sicuramente… o forse no?