Seconde squadre, potenzialità e limiti dell'esperienza italiana

A un anno dalla prima esperienza italiana targata Juventus U23, facciamo il punto sulle “seconde squadre”, nate per favorire la presenza nei campionati professionistici, seppur minori, dei giocatori più giovani…

chi è Fioranna Negri

A un anno dalla prima esperienza italiana targata Juventus U23, facciamo il punto sulle “seconde squadre”, nate per favorire la presenza nei campionati professionistici, seppur minori, dei giocatori più giovani (che trovano poco spazio in Serie A e nelle rispettive prime squadre) e oggi sospese tra potenzialità inespresse, prospettive future e irrisolte contraddizioni.

Seconde squadre – L’attuale situazione italiana

Ispirandosi all’esperienza (positiva) dei principali campionati europei (Spagna, Inghilterra, Germania, Francia e Olanda, già emulati da campionati minori, come quello slovacco), in Italia le “seconde squadre” hanno visto la luce, dopo anni di tentennamenti, nella stagione 2018/2019, con l’iscrizione della Juventus U23 nel Campionato di Serie C.

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La relativa disciplina viene dettata di anno in anno dalla Federazione, con provvedimenti ad hoc che determinano limiti, requisiti di iscrizione e oneri economici da sostenere.

Nella stagione 2018/2019, come pure in quella 19/20, la normativa federale ha previsto che le seconde squadre possano partecipare al Campionato di Serie C, andando a rappresentare la prima scelta per il completamento dei tre gironi da 20 squadre ciascuno (numero spesso non raggiunto per fallimenti, mancate iscrizioni, etc.) e andando quindi a prevalere sullo storico quanto complesso meccanismo del “ripescaggio” (delle squadre retrocesse ovvero meglio piazzate nelle categorie inferiori). La normativa prevede altresì che, qualora i posti a disposizione non fossero sufficienti a soddisfare le domande pervenute (situazione ancora mai verificatasi in Italia), la scelta verrà fatta dalla Federazione sulla base di criteri oggettivi che verranno appositamente individuati con provvedimenti ad hoc.

Le seconde squadre partecipano di diritto anche alla Coppa Italia Serie C e possono conseguire la promozione in Serie B, senza tuttavia poter mai partecipare al medesimo campionato della relativa prima squadra (e dunque, teoricamente, senza mai poter partecipare al campionato di Serie A né al campionato di Serie B, ove la prima squadra sia nel frattempo retrocessa).

Tra i principali requisiti di iscrizione, oltre all’ammissione della prima squadra al campionato di Serie A, vi sono la disponibilità di un impianto sportivo omologato per la Serie C (per questo la Juventus U23, non potendo giocare a Vinovo – dove pure giocano le squadre giovanili della società – è costretta a giocare nello stadio di Alessandria) e il versamento di un contributo straordinario annuo di 1.200.000 Euro alla Lega Pro (che organizza il campionato di Serie C, senza che a tale versamento, tuttavia, consegua l’acquisizione di diritti economici e di diritti di voto in seno alla Lega, espressamente preclusi alle società che partecipano con le seconde squadre).

Ben più stringenti i limiti imposti alle rose, che devono essere composte da 23 calciatori, di cui almeno 19 under 23 e massimo 4 (tra cui un portiere) fuori quota (a condizione che non abbiano disputato più di 50 gare in Serie A). Ancora, di questi almeno 16 calciatori devono essere “cresciuti calcisticamente in Italia” (il che significa che devono essere stati tesserati per almeno 7 stagioni da una società affiliata alla FIGC).

Sono, inoltre, possibili i passaggi fra prima e seconda squadra, ma se un calciatore raggiunge 5 presenze nella prima squadra non potrà più essere utilizzato dalla seconda squadra.

Seconde squadre – Il futuro: potenzialità del modello, prospettive e contraddizioni

Dopo due stagioni, l’unica esperienza italiana concreta è rappresentata dalla Juventus U23, che ha partecipato e partecipa alla Serie C perseguendo i seguenti obiettivi: valorizzare internamente il proprio patrimonio calciatori (e, quindi, ridurre il numero di calciatori dati in prestito), generare introiti dal mercato dei giovani calciatori, formare dirigenti e tecnici e, infine, ridurre la rosa della prima squadra e i relativi costi.

Obiettivi coerenti con le finalità e le potenzialità del modello, che altrove (leggasi Spagna) è stato adottato con successo per favorire la crescita dell’intero “sistema”, attraverso la formazione sul campo dei giovani calciatori (a immediato vantaggio delle nazionali giovanili e, in prospettiva, di quelle maggiori), e di nuovi dirigenti, tecnici, collaboratori, medici etc. (solo per citare gli esempi più eclatanti, Pep Guardiola e Zinedine Zidane si sono formati nelle seconde squadre di Barcellona e Real Madrid).

Senza contare che, per sua natura, a tendere, il modello può inoltre contribuire in modo determinante all’abbattimento dell’età media delle squadre di massima serie. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: ma se i vantaggi sono tanti e tali perché in Italia il modello stenta a decollare?

In molti ritengono, probabilmente a ragione, che il progetto sia prematuro, non essendoci in Italia un terreno sufficientemente fertile su cui innestarlo (i requisiti sono particolarmente onerosi e alle società mancano le risorse economiche, tecniche e manageriali per allestire una seconda squadra).

I detrattori sostengono anche che, perché il modello funzioni davvero quale propulsore del calcio giovanile professionistico, sia necessario ridurre il limite di età da 23 a 20 anni, ed evitare così di schierare nelle seconde squadre solo i giocatori in esubero. La riduzione dell’età massima a 20 anni, tuttavia, comporterebbe un potenziale conflitto con i settori giovanili (che negli ultimi anni sono cresciuti in competitività), e, quindi, un cortocircuito del sistema.

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C’è, infine, chi contesta il modello alla radice, ritenendo che lo stesso non sia in linea con lo spirito “storico” della nostra Serie C, che da sempre rappresenta le c.d. “piazze piccole”: società spesso storiche, con alterne fortune sportive ma con un grande e costante seguito (valore, quello rappresentato da piazza e tifosi, di cui le seconde squadre sono indubbiamente prive).

Ciò detto, l’esperienza delle seconde squadre è stato solo il primo, coraggioso passo di un lungo cammino che, in un modo o nell’altro, andava intrapreso. Oggi, anche grazie al dibattito che il modello “seconde squadre” ha generato, è finalmente chiaro a tutti – società, istituzioni, investitori – che l’evoluzione dell’intero movimento calcistico italiano passi ineludibilmente dalla valorizzazione del patrimonio giovanile delle nostre società.

E a conferma dell’importanza della posta in gioco, si è mosso anche il Settore Tecnico della Figc, che dietro la forte spinta del suo presidente, Demetrio Albertini, ha recentemente istituito un percorso formativo volto a “costruire” una nuova figura manageriale, il “Responsabile del settore giovanile”. L’obiettivo dichiarato è che tale figura diventi presto, per competenze tecniche, manageriali e gestionali, un tassello fondamentale e imprescindibile dell’assetto organizzativo di tutte le società affiliate alla Figc.

Articolo a cura di Martino Ranieri, senior associate di BonelliErede

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