Il modello tedesco, ecco come in Germania i vivai hanno fatto grande la nazionale

Quando parliamo del rilancio del calcio tedesco, e, soprattutto, del successo del calcio tedesco sia a livello di club che, oggi ancor di più, di nazionale, parliamo di un modello nato…

Quando parliamo del rilancio del calcio tedesco, e, soprattutto, del successo del calcio tedesco sia a livello di club che, oggi ancor di più, di nazionale, parliamo di un modello nato non molto tempo fa, sorto sulla necessità di riformare un sistema ormai vecchio, improduttivo, economicamente povero. Perché, da sempre, e in tutto, la Germania lavora per migliorarsi e per diventare lei stessa un modello per il resto del continente. Ovviamente sostenibile. Anche nel calcio.

E allora quando parliamo di “modello tedesco“, oggi più che mai termine di moda e sulla bocca di tutti, di cosa stiamo parlando? Il discorso ha diverse sfaccettature, ma non è difficile elencare i principali tasselli che hanno favorito una scalata, sportiva ed economica, davvero senza precedenti in Europa. Perché il fallimento della nazionale agli europei di Belgio e Olanda di 14 anni fa, mise infatti la Federazione teutonica con le spalle al muro: la Bundesliga era un torneo dotato di poco fascino, incapace di attirare i grandi campioni, così come i grandi sponsor e i grandi investimenti dall’estero. Si capì che urgeva una rifondazione drastica di tutto il movimento e che l’unico modo di uscire da una crisi tecnica di vaste proporzioni era l’investimento sul proprio prodotto, quindi sulla valorizzazione dei vivai.

Il progetto della DFL, la lega calcio tedesca, dopo il già citato fallimento europeo, fu dunque chiaro, semplice e di grande efficacia. Pochi accorgimenti, ma che andarono dritti al cuore del problema. Il calcio tedesco, all’epoca, era ancora un calcio ruvido e poco spettacolare, l’età media, come il talento, non permetteva la ‘vendibilità’ di un prodotto dotato di poco, pochissimo, appeal. Da qui la rivoluzione che investì soprattutto la politica legata ai settori giovanili, in cui si partì dall’estensione dell’obbligo per tutte le società di Bundesliga e Bundesliga 2 (la nostra serie B) di avere una squadra in ogni categoria giovanile, a cominciare dagli under 12. E ancora, si stabilì che ogni formazione under 16 in su dovesse avere in rosa almeno 12 giocatori candidabili a una maglia della nazionale di categoria. E per accorciare il gap tra le società, non tutte dotate della medesima forza economica, la Federcalcio tedesca strutturò un piano di ‘aiuto’ geniale, attraverso la creazione di un fondo comune per aiutare i club che dispongono di risorse più limitate.

L’occasione è stata sfruttata alla perfezione: perché, a ben guardare, i vari Neuer, Kroos, Goetze, Reus, Hummels, ovvero l’asse portante della selezione guidata dal tecnico Joachim Low, sono stati cresciuti e lanciati in realtà notevolmente distanti (calcisticamente) dalle grandi città e dai grandi club, ma solide economicamente e in cui vi era l’assoluta convenienza di puntare forte sui prodotti del vivaio, per rivenderli poi alle big del campionato. Risultato: oltre la metà dei giocatori della Bundesliga sono tedeschi, e i migliori, sono spesso scoperti a Wolfsburg, Gelsenkirchen, Rostock. Realtà di cui andare fieri perché è anche, e soprattutto, ad un lavoro di scouting assolutamente professionale che la Germania, oggi, è campione del mondo.