La decisione all’unanimità della FIFA che ha varato per il 2026 il mondiale a 48 squadre è una scelta tutta politica, con risvolti sportivi da non trascurare, e pesanti implicazioni in termini economici.
I quotidiani di questa mattina affrontano il tema a tutto tondo ed è interessante riprendere alcuni aspetti.
Il primo e più dibattuto: più partite (da 64 a 80) non garantiscono più incontri di qualità (Zapelloni sulla Gazzetta). Vero. Tuttavia la formula prescelta annulla del tutto le partite inutili del terzo turno oltre che i fastidiosi sospetti di combine che da sempre dominano i gironi a 4. Il ritorno dei gironi a 3 viene infatti proposto nell’unico modo possibile, ovvero con 2 qualificate dopo che a Spagna ’82 si capì che il girone a 3 con un solo passaggio del turno era rischioso.
Su calcioefinanza.it abbiamo piuttosto fatto notare ieri come il raddoppio dei gironi in realtà permetta alle europee di giocare meno sfide fratricide e poter avanzare nella competizione (dovrebbe esserci una europea in ognuno dei 16 gironi), alzando quindi il livello dagli ottavi in poi.
Lo stesso editorialista Gazzetta fa notare: “Ci furono molte critiche anche quando l’Europeo passò da 16 a 24 squadre, ma poi l’estate scorsa ci siamo goduti tutti l’Islanda. Le favole, come ci insegna Claudio Ranieri, miglior allenatore dell’anno, fanno bene al calcio. E con 48 squadre c’è naturalmente più spazio per le storie alla Leicester“.
E qui nasce un interrogativo: ma perchè l’opinione pubblica si esalta e si eccita quando vede il Crotone e il Carpi in serie A ed invece urla all’inciucio politico mondiale quando il Mondiale diventa a 48 squadre?
Qui può venirci incontro la dicotomia antropologica noi-loro. Benvenute le cenerentole di casa, ma quando si tratta di mondiale la prima regola rimane “non passa lo straniero”.
Diceva bene Winston Churchill: “gli italiani fanno partite di calcio come fossero guerre e guerre come fossero partite di calcio”, spiegando in verità più i limiti della sua Inghilterra che i nostri 2 (poi 4) mondiali.
Fa bene i conti, invece, Marco Bellinazzo sul Sole 24 Ore. La Fifa si aspetta 4 miliardi di euro di ricavi contro i 3,5 stimati per il prossimo mondiale 2018. Mezzo miliardo dai diritti tv e 370 milioni dal marketing. Questo a fronte di 325 milioni di dollari di costi in più (80 partite anzichè 64).
Incassi che sono ovviamente da attualizzare.
Ma probabilmente il centro del discorso è molto più politico che meramente economico e sportivo. E qui torna l’importanza del calcio in termini di soft power a cui su calcioefinanza.it abbiamo accennato sia parlando del ruolo futuro dell’Inghilterra ai tempi della Brexit sia inquadrando la strategia cinese di ingresso nel calcio (e nel calciomercato) che conta.
Infantino ha vinto lo scorso anno le elezioni Fifa grazie all’appoggio di un ampio raggio di federazioni. Oggi queste vanno all’incasso.
Basta guardare alla distribuzione dei posti.
Nel 2018 in Russia la distribuzione è la seguente:
Asia: 4+1
Africa: 5
Sud America: 4+1
Nord America: 3+1
Europa: 14 (compresa la Russia paese ospitante)
Oceania: 1 squadra ai playoff
Questo invece sarebbe il progetto Fifa: Europa 16, Africa 9,5; Asia 8,5; Sudamerica 6,5; Nordamerica 6,5; Oceania 1. I mezzi, va ricordato, sono frutto di playoff incrociati che potrebbero favorire uno o l’altro continente.
Guardiamo agli ultimi 50 anni. A Messico ’70 l’Europa si presentò con 9 squadre su 16. Il 56,25%, come nel ’74 (prima volta di una africana, lo Zaire). Nel ’54 erano state ben 12 su 16 (75%). Nel ’78 salirono a 10 su 16 (62,5%).
A quel punto l’allargamento fu soprattutto una rivendicazione di centralità. Nel 1982 in Spagna si presentarono 14 europee su 24 (58,3%), rimaste così fino a Italia ’90 e scese a 13 quando gli Stati Uniti organizzarono il mondiale nel 1994.
Non è un caso che proprio l’ingresso nel calcio degli USA, di fatto qualificatisi per la prima volta solo a Italia ’90, recentemente registi non troppo occulti del defenestramento di Blatter e paese emergente da ormai due decenni nel panorama pallonaro, abbia determinato l’inizio della perdita di centralità europea.
Proprio gli USA potrebbero presto organizzare i mondiali (2026) dell’allargamento con Canada e Messico. Lo stesso paese nei confronti dei quali il presidente Donald Trump, come fa notare il Sole 24 Ore questa mattina, ha agitato lo spauracchio elettorale del muro divisorio.
Se l’allargamento di Spagna ’82, come detto, fu una affermazione della centralità europea, quello di Francia ’98 da 24 a 32 squadre fu il suo contrario. 15 squadre su 32 (46,875%). Mai nel dopoguerra l’Uefa aveva avuto meno della metà delle partecipanti.
Nel 2006 un altro posto in meno, 14 compresa la Germania nazione ospitante (43,75%) diventate 13 in Brasile (40,625%) e confermate in Russia (dove il paese ospitante appartiene però all’Uefa).
Se nel 2026 l’Europa otterrà come sembra solo 16 posti la rivoluzione sarà di fatto compiuta con l’Uefa ridotta a un terzo della presenza nel mondiale.
In altri termini per l’Uefa 16 squadre su 54 federazioni iscritte (29,6%), nel frattempo il Sudamerica salirà fra il 60 e il 70% (6,5/10), il Nordamerica con 6,5 su 35 avrebbe una percentuale del 20%, ma tanto per capirci la settima nazione Concacaf nel ranking si chiama Curaçao (che non è solo un liquore a base di scorze di laraha, ma anche un’isola con 153 mila abitanti e una nazionale di calcio).
Per un quadro completo: l’Africa avrebbe 9,5 su 53 federazioni, l’Asia 8,5 su 47 (il mezzo, al momento, stando al ranking, è rappresentato dalla Cina, altro grande polo di sviluppo del movimento e del mercato calcistico mondiale), l’Oceania 1 su 14 (l’Australia gioca in Asia, praticamente una strada spianata alla Nuova Zelanda).
La realtà è che nel dopoguerra si giocava a calcio solo in Europa e Sud America mentre ora si gioca pressochè ovunque. Nel 1950 furono 34 le iscritte alle qualificazioni, cresciute di 9 quattro anni dopo. Oggi fanno parte della FIFA 211 nazioni e l’Europa rappresenta un quarto del totale.
Non è nostro compito dare un giudizio sulla riforma. Ognuno può scegliere da che parte stare.
Se si vuole che il calcio conservi il suo status è giusto far notare che oggi la qualità superiore del calcio europeo esprime numericamente un misero 3% di posti in più rispetto al mero peso numerico dell’Uefa nella Fifa, forse un po’ poco.
Se si preferisce enfatizzare il ruolo della politica è lampante la crescita di continenti calcisticamente meno evoluti ma sempre più decisivi. Ricordando anche che se si vuole che il calcio sia sempre più il gioco della gente, la strada del coinvolgimento non può considerarsi sbagliata, visto che – in fondo – l’Europa copre solo il 10% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti fanno da soli il 5% circa, contro il 16% dell’Africa ed il 18% della sola Cina.