«Berlusconi? Non ci siamo mai scontrati, nonostante le mie idee politiche, che notoriamente non coincidono con le sue, e l’amicizia con Prodi. Conosco Berlusconi da quando era soltanto un imprenditore di successo. Lo incoraggiai a comprare il Milan. Temeva, comprando una squadra, di perdere la simpatia dei tifosi delle altre; e lui voleva piacere a tutti. Gli feci notare che, come dimostrava Agnelli, possedere una squadra non impediva di essere ammirato, anzi». Lo racconta Giovanni Bazoli, banchiere ex presidente del Banco Ambrosiano e poi numero uno di Intesa San Paolo (di cui dal 2016 è presidente emerito), in una lunga intervista al Corriere della Sera.
«I miei presentimenti? Amo il bel calcio, e quest’anno ho seguito il Napoli, che finora ha perso una sola partita, a Liverpool. Su una punizione ho sentito chiaramente che il Napoli avrebbe segnato, ma poi avrebbe subito due gol. È finita così, anzi peggio perché poi il gol del Napoli l’hanno annullato per un fuorigioco millimetrico».
«La mia nomina a presidente del Banco Ambrosiano? Era una sera di fine luglio. Nel salone delle assemblee della Banca d’Italia, con il governatore e il direttorio, c’erano i rappresentanti delle sette banche che avevano accettato la proposta respinta dalle grandi banche milanesi: farsi carico dell’Ambrosiano dopo il crac e la morte di Calvi. Quando fu annunciato che il nuovo presidente era Bazoli, tutti si guardarono attorno: non mi conosceva nessuno. Mi alzai in piedi e dissi: Bazoli sono io. Ma non ho ancora accettato, anzi ho molte riserve».
«Allora si parlava di Sindona e di Calvi come di “banchieri cattolici”. Mi proponevo di dimostrare che un cattolico si può occupare di finanza in modo corretto. All’epoca ero più ingenuo di oggi, più convinto che gli esempi servissero. E volevo dare un esempio non solo di legalità, ma anche di non avidità. Ho guadagnato quanto mi permette di vivere bene. Ma ho rinunciato all’avvocatura, e in alcuni decenni ai vertici del sistema non mi sono arricchito. Le disuguaglianze eccessive stanno distruggendo la democrazia».
«Se è vero che Agnelli affidò il Corriere della Sera prima della sua morte? Lo vidi per l’ultima volta quando era molto grave e sofferente. Era il giorno in cui si presero a Torino decisioni drammatiche per la Fiat: fu respinta l’idea di Mediobanca, che voleva affidarla a Bondi e ridimensionarla. Parlammo per più di mezz’ ora. Agnelli mi disse: “In Rizzoli abbiamo fatto un buon lavoro. Ho detto al mio avvocato di non prendere nessuna decisione senza parlare con lei”. Grande Stevens mi riferì di aver capito che la raccomandazione fosse più vasta: parlare con me non solo di Rizzoli, ma di tutto. Perché Agnelli mi trovava diverso dagli uomini che frequentava. Curiosissimo com’ era, voleva sapere cosa fosse mai questo mondo che non conosceva, le banche cattoliche…».
«Come è morto Calvi? Ormai è provato che sia stato ucciso. Sulla banca la sua figura è rimasta a lungo come un’ombra. Molti anni dopo la sua morte, al ritorno da una riunione del Fondo monetario a Washington vennero a prendermi all’aeroporto e mi portarono di corsa da Passera, allora amministratore delegato, che mi informò con grande allarme e cautela, temendo di essere spiato, che era stata rinvenuta una cassetta di sicurezza intestata a Calvi… Cosa c’era dentro? Niente. Dei giornali. E un mattone. Non si è mai saputo che cosa significassero. Certo, quando fu ucciso, aveva dei mattoni al collo. Che idea mi sono fatto della P2? Era strettamente intrecciata al mondo di Sindona e Calvi. Sopravvissuta a loro, ha cercato in tanti modi e in diversi tempi di ostacolare il cammino del Nuovo Banco, l’operazione di pulizia affidatami da Ciampi e Andreatta».