Al via i Mondiali dello sportwashing. Purtroppo non è la prima volta

Il Mondiale di Qatar 2022 che prenderà il via domenica 20 novembre allo stadio Al-Bayt di Al Khawr sicuramente resterà nella storia come una delle edizioni più discusse della rassegna iridiata.

FIFA ritardi Mondiali 2026
Football Affairs
(Foto: FRANCK FIFE/AFP via Getty Images)

Il Mondiale di Qatar 2022 che prenderà il via domenica 20 novembre allo stadio Al-Bayt di Al Khawr sicuramente resterà nella storia come una delle edizioni più discusse della rassegna iridiata.

A livello tecnico, il primo Mondiale ospitato da un Paese arabo è anche la prima kermesse globale che sarà giocata nell’inverno dell’emisfero nord. Andando quindi a interrompere i principali tornei per club al mondo, questo fatto ha già provocato lo sconquasso dei calendari di tutte le manifestazioni per club in Europa, che piaccia o non piaccia rappresentano il cuore del calcio mondiale. Inoltre, ci sarà l’aggravante, per quanto riguarda la qualità del gioco, di disputare partite a temperature non certo ideali.

Ma, dando per buoni questi aspetti, il punto è soprattutto politico. Il Qatar non è certo un esempio di democrazia e nemmeno di luogo in cui vengono tutelati i principali diritti personali e civili. Ma questo non ha impedito alla FIFA di scegliere nel 2010 il Paese del Golfo quale nazione ospitante. Le leggi della nazione araba, solo per citarne alcune, prevedono per esempio che l’omosessualità sia un reato e che in caso di matrimonio tra un qatariota e un cittadino straniero la concessione della nazionalità qatariota sarà soltanto appannaggio dei figli di padre qatariota e madre straniera, ma lo stesso non succederà se invece a essere qatariota è la madre.

Non certo da ultimo, non si possono scordare le condizioni, al limite ma spesso oltre il disumano, nella quali i lavoratori che hanno costruito gli impianti per la manifestazione (per lo più immigrati dai paesi più poveri del continente asiatico) hanno dovuto vivere e operare.

Qatar 2022 e quel pranzo all’Eliseo

Come si diceva niente di tutto questo però ha impedito alla FIFA di scegliere in ormai lontano giorno del 2010 il Qatar quale sede per i Mondiali 2022. Una decisione che secondo molti sarebbe legata anche a un pranzo svoltosi a Parigi nel novembre 2010, poche settimane prima del voto per assegnare l’organizzazione della Coppa del Mondo al paese asiatico. Intorno al tavolo, quel giorno, si trovarono non solo l’allora presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy e l’allora numero uno della UEFA Michel Platini, ma soprattutto c’erano il principe erede del Qatar, oggi emiro, Tamim Bin Hamad Al Thani, e il primo ministro dell’emirato, Hamad Bin Jassem Al Thani.

Questi ultimi erano molto interessati a far diventare una volta per tutte Parigi (e con essa la Francia) un centro nevralgico del calcio mondiale, visto che mai prima di allora la capitale transalpina aveva recitato, almeno a livello di club, un ruolo di prim’ordine nel calcio mondiale. Non a caso, nei mesi che seguirono quell’incontro, prima il Qatar sconfisse gli USA nella corsa ai Mondiali 2022, poi i qatarioti di Al Jazeera acquistarono i diritti tv della Ligue 1 francese, infine la Qatar Sports Investments guidata da Nasser Al-Khelaifi comprò per 70 milioni di euro il Paris Saint-Germain, trasformandolo poi nella potenza che è oggi.

Molti addetti ai lavori negli ultimi giorni, tra cui l’allenatore del Liverpool Jurgen Klopp hanno accusato chi di dovere, stampa e istituzioni, di non aver fatto nulla in questi dodici anni per bloccare lo svolgimento di una manifestazione così importante in un Paese così retrogrado. Il coach tedesco – che resta una delle menti più lucide tra gli addetti ai lavori quando si tratta di analizzare le questioni extra campo -, non ha torto in linea di principio. Però senza voler giustificare la categoria giornalistica è altrettanto vero che negli ultimi anni sono stati molti i reportage sulla stampa italiana e internazionale sui problemi etici che sollevavano e tuttora sollevano i Mondiali in Qatar. E se qualcuno si stupisce della grande quantità di articoli pubblicati in questi giorni su questo tema, è perché ovviamente la stampa è trainata dall’attualità.

Più colpevoli, a nostro avviso, (anche perché più potenti e in grado di influire maggiormente sui processi decisionali), sono state sicuramente le istituzioni tutte – la FIFA in testa ma anche quelle politiche – che praticamente nulla hanno fatto perché questa situazione non si verificasse. E il cambiamento di loghi e magliette di alcune federazioni di questi giorni – gli USA ad esempio hanno cambiato il logo della federazione modificandoli con i colori dell’iride in onore alla comunità LGBTQ+ e anche da Olanda e Danimarca sono giunte manifestazione di distanza – assomigliano più a pannicelli caldi che atti di denucia veri e propri.

Si poteva gestire tutto meglio? Sicuramente si. Il nodo però è per lo più economico. In più di un’occasione da più parti e anche da questa testata si è sottolineato come la FIFA viva quasi esclusivamente di Mondiali e che la rassegna iridata sia nei fatti l’unica occasione per fare entrare denaro nelle casse della federazione mondiale. Soldi che servono poi per sostenere e sovvenzionare tutte le attività della federazione mondiale durante l’intero quadriennio successivo. Visto che le altre manifestazioni che la FIFA ha tentato di lanciare negli ultimi anni per rimpinguare le proprie entrate (Confederations Cup, Mondiale per Club allargato) non hanno portato risultati significativi.

Paradossalmente, in termini strettamente economici, sta meglio l’UEFA (che della FIFA è una parte) visto che oltre agli Europei per nazioni organizzati ogni quattro anni (che fatturano poco meno dei Mondiali), può contare ogni anno sui proventi della Champions League, la più redditizia manifestazione per club al mondo. Anche qui non è un caso che l’ex segretario generale della UEFA Gianni Infantino, non appena eletto presidente della FIFA, abbia pensato negli anni scorsi di lanciare sotto l’egida della federazione mondiale una sorta di Champions League allargata ai top team americani. Il tutto per erodere il potere economiche dell’UEFA e allargare quello della FIFA.

Insomma, per farla breve, la FIFA ha continuamente e quasi ossessivamente bisogno di soldi per cercare di autosovvenzionarsi da un lato e, volendo vederla dal lato positivo, di allargare il più possibile nel pianeta il gioco del calcio. Il tutto per evitare la concorrenza di altri sport nella conquista delle giovani generazioni: si pensi ad esempio il cricket nei sempre più popolosi Paesi asiatici, al basket NBA a livello globale oppure al football americano che sta cercando di uscire dai suoi confini statunitensi, per altro già molto redditizi.

In questo quadro sicuramente i Paesi del Golfo possono fornire questi finanziamenti. Basti pensare non solo ai 300 miliardi spesi dal Qatar per i Mondiali 2022 ma anche a quanto investito e immesso nel circuito calcistico dallo stesso Qatar da quando nel 2011 ha acquistato il PSG. E per il prossimo futuro si tenga ben presente l’Arabia Saudita, che tramite il fondo PIF ha acquisito la maggioranza del Newcastle l’anno scorso, ha già speso oltre mezzo miliardo nel club di Premier League e oltre 2 miliardi come sponsor.

A questo punto l’interrogativo è: dando per buoni gli intendimenti della FIFA – voler allargare la platea del calcio mondiale il più possibile tramite la sempre maggiore inclusione dei Paesi più poveri – il fine giustifica i mezzi? Per dirla in maniera più esplicita: è giusto, per finanziare questi progetti, affidare l’organizzazione della manifestazione più importante dello sport più importante al mondo a Paesi con chiari e gravi problemi di tutela dei diritti.

Questa testata pensa di no, che non lo sia nella maniera più chiara e perentoria.

Anche perché questi investimenti del Golfo non sono certo atti di beneficenza verso Parigi, Newcastle, Manchester o per lo sviluppo del mondo del calcio. I governi di quei Paesi hanno infatti un grande interesse dietro a questi investimenti, che si chiama diversificazione. Le ricchezze accumulate negli anni grazie ai proventi petroliferi dovranno infatti essere presto investite in altri settori affinché la classe dirigente di quei Paesi possa continuare a vivere a questo tenore di vita. Si pensi per esempio alla transizione ecologica con cui gran parte del mondo occidentale pensa di modificare il proprio bisogno di mobilità dal petrolio all’elettrico.

È evidente che per i Paesi del Golfo si tratta di una perdita potenziale di domanda per i propri beni. Di qui la necessità di investire in società e asset immobiliari nei Paesi più redditizi, (tipicamente europei e nordamericani). Ma qui l’immagine dei governi del Golfo, per di più non democratici e con grandi lacune in tema di diritti, non sempre trova buona accoglienza nella società civile e in alcuni settori della società. E quindi l’investimento e il successo sportivo aiuta ad essere benvenuti. Cosa crea più simpatia nelle masse che i grandi successi sportivi? A Manchester la reputazione dei Paesi del Golfo a livello popolare è molto migliorata da quando l’Abu Dhabi United Group ha acquistato il City nel 2008, facendolo diventare una superpotenza mondiale in pochi anni. E si pensi alle scene di giubilo avvenute a Newcastle quando i megpies sono stato acquistati dagli infinitamente ricchi sauditi del fondo sovrano PIF.

Questo meccanismo ha un nome specifico e viene definito softpower per i meccanismi di simpatia che crea verso chi investe. Oppure da chi invece ne vede il lato più negativo, sportwashing – ovvero pulizia della propria immagine di regime non democratico attraverso i successi sportivi.

La verità è che niente come lo sport, che vive di emozioni, è in grado di generare simpatia ed empatia tra le popolazioni, anche se il nuovo arrivato non ha proprio un pedigree adamantino.

Per altro all’interno di questo quadro non sono in pochi gli addetti ai lavori che vedono una battaglia sotterranea per il dominio del mondo del calcio (e quindi del suo softpower) tra chi i capitali arabi e capitali statunitensi. I primi tentano di entrare nella stanza dei bottoni di questo sport non solo attraverso l’acquisto di grandi club ma anche attivando una dialettica con le istituzioni esistenti penetrandole dall’interno (il qatariota Al-Khelaifi nella guerra UEFA-Superlega si è subito schierato con la prima diventando poi numero uno anche dell’ECA). Mentre i secondi sono più legati alla logica del profitto tout court e un eventuale loro disegno egemone è legato al fatto sono tanti i fondi USA che stanno rastrellando i club dal maggior potenziale di crescita nel futuro prossimo.

Mondiali e polemiche? Non è la prima volta

Ora al di là delle polemiche su Qatar 2022, quel che è certo è che sicuramente non è la prima volta nella storia dei Mondiali che la kermesse iridata venga ospitata in Paesi poco presentabili. Quasi che, parole a parte, i temi non interessino granché né alla FIFA e nemmeno ai politici di turno.

Non più tardi di quattro anni orsono d’altronde la kermesse iridata venne ospitata in Russia. Paese che sebbene non avesse ancora mosso guerra all’Ucraina e formalmente fosse un Paese democratico (come in teoria lo sarebbe anche ora), già nel febbraio 2014 aveva invaso la Crimea, ufficialmente territorio ucraino. Ma questo non impedì non solo lo svolgimento della Coppa a Mosca e dintorni, ma nemmeno che i due capi di Stato dei Paesi finalisti, il francese Emmanuel Macron e la croata Kolinda Grabar-Kitarovic, sedessero accanto a Vladimir Putin sulle tribune dello stadio Luzhniki per la partita conclusiva dei Mondiali.

E scendendo a ritroso nella storia, quando le dinamiche politiche erano più importanti di quelle economiche, non mancano episodi ancora più significativi. Nel primo dopoguerra non si può dimenticare ovviamente come l’Italia fascista guidata da Benito Mussolini abbia organizzato i Mondiali del 1934, i primi mai ospitati sul suolo europeo.

Allo stesso tempo non si può scordare come nel secondo dopoguerra anche il calcio mondiale sia stato preda della guerra fredda e della logica della geopolitica di quei tempi. Su questo tema ci sono pochi dubbi che lo sport più popolare al mondo appartenesse al blocco occidentale. In particolare gli Stati Uniti, che certo non potevano fregiarsi del titolo di potenza sportiva nel calcio, utilizzarono quale loro braccio armato nelle questione più prettamente politiche le federazioni sudamericane, per lo più quella più potente: quella brasiliana.

Prova ne sia il fatto che mai nel periodo tra il 1945 e il 1991 (l’epoca della guerra fredda) un Paese appartenente al Patto di Varsavia abbia organizzato i Mondiali. Non solo, ma non erano nemmeno in pochi quelli che sostenevano che ci fosse una sorta di conventio ad excludendum per la quale nessun Paese appartenente al blocco sovietico potesse vincere i Mondiali.

Il sospetto più eclatante sorse ai Mondiali di Svizzera 1954 quando emersero molti dubbi sulla vittoria della Germania Ovest sulla meravigliosa Ungheria di Puskas e Hidegkuti: dopo aver perso per 8-3 nella fase a gironi e dopo essere in svantaggio per 2-0 dopo 10′ nella finale, i tedeschi riuscirono a ribaltare la situazione e vincere per 3-2 quella partita. Lo spettro del doping ha aleggiato per molto tempo su quella partita (complice alcune complicanze di salute avvenute immediatamente dopo la finale per alcuni giocatori della Deutsche NationalMannschaft, qualcuno anche costretto al ritiro). Ma certamente quella vittoria fu strumentale per sollevare lo spirito di una nazione uscita con le ossa rotte dalla Seconda Guerra Mondiale.

E se nel 1962 il Brasile di Garrincha e Amarildo (Pelé fu per lo più infortunato durante quei Mondiali) dava sufficienti garanzie perché la sorpresa Cecoslovacchia non vincesse la finale, un altro episodio da ricordare è quello di Messico 1986 quando la meravigliosa Unione Sovietica dell’allenatore ucraino Valeri Lobanovski fu fermata agli ottavi di finale dal Belgio in una partita con un arbitraggio quantomeno discutibile. Mondiali per altro che originariamente erano stati assegnati alla Colombia, allora dominata dai cartelli dei Narcos, prima che si giungesse alla decisione di spostarli in Messico.

La questione invece era meno delineata in sede europea, dove non solo l’Unione Sovietica (nel 1960) e la Cecoslovacchia (1976) riuscirono a imporsi come campioni d’Europa ma anche dove un Paese come la Jugoslavia, ufficialmente non allineato ma comunque socialista sotto l’egida di Tito, ottenne l’organizzazione dell’edizione 1976.

Lo scandalo di Argentina 1978

La pagina però più scandalosa della storia dei Mondiali (quantomeno nel secondo dopoguerra) è quella di Argentina 1978. La scelta del Paese sudamericano quale nazione ospitante avvenne nel 1964 quando era presente un governo formalmente democratico guidato da Arturo Illia. Ma nulla cambio quando nel 1976 la giunta militare guidata da Jorge Videla instaurò un regime militare sanguinario diventato famoso per il fenomeno dei desaparecidos.

Gli oppositori del regime prima venivano imprigionati in centri non ufficiali, poi venivano torturati, storditi e infine lanciati a peso morto nelle acque del Rio de la Plata dove scomparivano, di qui il termine desaparecidos. Il golpe di Videla era parte della cosiddetta Operazione Condor, un piano ideato dall’allora segretario di Stato statunitense Henry Kissinger e dalla presidenza di Richard Nixon volto a instaurare in America Latina governi militari di destra per reprimere la crescente tensione filosocialista di alcune nazioni sudamericane: anche il golpe di Pinochet in Cile era parte di quel piano.

Ovviamente i Mondiali 1978 sarebbero stati una grande occasione di rafforzamento del potere interno di Videla, a patto che l’Argentina trionfasse. Tanto per esplicitare quelli fossero le pressioni, l’allenatore della nazionale sudamericana Luis Cesar Menotti si privò a malincuore del già immenso talento dell’allora quasi 18enne Diego Armando Maradona perché non lo riteneva pronto per reggere quella situazione (Maradona disse sempre, prima delle vicende di USA 1994, che quella fu la sua più grande delusione). Il tutto dopo che lo stesso Menotti per motivi politici non poté convocare nemmeno lo storico capitano Jorge Carrascosa e che in alcuni casi dovette convincere alcuni calciatori a giocare perché “noi giochiamo per il popolo argentino e non per il governo”.

In quel quadro non mancarono però episodi che certo aiutarono la Seleccion a vincere il suo primo mondiale e per chi volesse approfondire la storia del Mundial sucio (il Mondiale sporco) un libro interessante è “I Mondiali della vergogna” di Pablo Llonto (pubblicato in Italia da Alegre).

Qui basti ricordare un paio di episodi: in quella edizione del Mondiale non erano previste le semifinali. In finale era previsto arrivavassero le prime in classifica nei due gironi di quattro squadre formati dalle otto nazionali che avevano superato la prima fase. Le due partite conclusive di entrambi i gironi sarebbero dovute disputarsi in contemporanea affinché nessuno fosse avvantaggiato dal fatto di sapere in anticipo i risultati delle rivali. E così avvenne nel gruppo di Buenos Aires dove giocavano Italia, Olanda, Germania Ovest e Austria. Nel secondo girone, quello di Rosario, comprendente Brasile, Argentina, Perù e Polonia, le partite conclusive sarebbero dovute essere Brasile-Polonia e Argentina-Perù.

Il duello era ormai limitato tra Argentina e Brasile, che dopo aver pareggiato zero a zero nella seconda giornata si giocavano la qualificazione alla finale per la differenza reti. Incredibilmente il giorno prima dei match con il Perù la federazione argentina ottenne dalla FIFA il permesso di far slittare la partita di qualche ora e ovviamente l’Albiceleste scese in campo sapendo il risultato del Brasile e di dover battere il Perù con almeno quattro gol di scarto per arrivare in finale. Il match terminò 6-0 per i padroni di casa.

Non solo, ma prima della gara Videla scese negli spogliatoi peruviani e ricordò ai biancorossi come il loro Paese e l’Argentina fossero nazioni sorelle. Ma che potesse vincere il migliore. Infine, quasi che non fosse stato sufficiente l’avvertimento del dittatore, il portiere dei biancorossi, Ramon Quiroga, era un argentino naturalizzato peruviano e non appena sceso in campo vide dietro la sua porta allo stadio Gigante de Arroyito di Rosario l’intera sua famiglia schierata. Tutti con una bandierina bianco e celeste.

Terminato il match seguirono ovviamente i reclami della federazione brasiliana e molti articoli sulla stampa internazionali su eventuali tangenti pagate al Perù. Ma non portarono a nulla. In finale l’Argentina batté i Paesi Bassi ai supplementari per 3-1 dopo che a 20 secondi dalla fine dei tempi regolamentari un palo negò all’olandese Rensenbrink il gol del 2-1 che avrebbe infranto i sogni del regime.

Gli Oranje si lamentarono molto dell’arbitraggio dell’italiano Sergio Gonella, ma dopo i due gol argentini nei supplementari i papelitos poterono scendere sul prato del Monumental in segno di festa mentre Videla, che aveva visto la partita in tribuna con Kissinger seduto qualche fila più indietro, poté scendere sulla pista e premiare i giocatori argentini con la coppa. La FIFA concesse una deroga affinché fosse Videla e non il presidente della federazione mondiale Joao Havelange a condurre la premiazione.

Il tutto mentre a un chilometro di distanza da quello che in quella notte era l’epicentro del mondo, sempre nel quartiere di Nunez, nelle stanze segrete della Escuela Superior de la Mecanica de la Armada (ESMA), la scuola di formazione della Marina argentina che era diventato il principale centro di imprigionamento dei dissidenti, si continuavano a torturare persone, molte delle quali presto sarebbero stati desaparecidos. La ESMA oggi è il museo principale in tutta l’Argentina per la memoria di quelle torture e di quei morti.