Perché numeri alla mano il calcio UE non è sostenibile

Non appena l’adrenalina delle partite sul campo è andata in vacanza, nel calcio europeo – a essere più precisi in quello dell’Europa continentale – è riesplosa con grande virulenza la litigiosità che contraddistingue il sistema.

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Football Affairs
Joan Laporta (Photo by LLUIS GENE/AFP via Getty Images)

Non appena l’adrenalina delle partite sul campo è andata in vacanza, nel calcio europeo – a essere più precisi in quello dell’Europa continentale – è riesplosa con grande virulenza la litigiosità che contraddistingue il sistema a livello di governance nei suoi massimi livelli. Segno evidente che la ferita dalla Superlega non solo non si è rimarginata ma che le istanze portate avanti in quell’occasione, seppure con metodi discutibili, sono ancora irrisolte: in particolare quella del grido di allarme per cui il calcio europeo – con l’esclusione di quello inglese – se non si faranno riforme sostanziali in termini finanziari farà fatica a sostenersi.

Nel breve volgere di una settimana infatti abbiamo visto: prima il presidente del Barcellona Juan Laporta dire che la Superlega non solo non è morta, ma «c’è la piena disponibilità a negoziare con la UEFA e penso che le asperità saranno finalmente appianate e si stabilirà un dialogo». A distanza di qualche giorno è stata la volta del suo omologo al Real Madrid Florentino Perez, che non solo ha proseguito nel solco delle parole di Laporta ma poi non ha mancato di criticare aspramente il PSG dopo il mancato passaggio di Mbappé ai Blancos. A conferma che i tre club ribelli, Barcellona, Juventus e Real Madrid, non hanno alcuna intenzione di mollare la presa. A metà luglio sono previste le prime udienze in Lussemburgo anche se è praticamente impossibile che già in quei giorni uscirà qualcosa di importante.

Ma anche all’interno del campo dei “vincitori” le tensioni sono a mille: la Liga, guidata dal presidente Javier Tebas, ha denunciato PSG e Manchester City all’UEFA per le violazioni in chiave Fair Play Finanziario. Nei fatti trovandosi sulla stessa linea e in piena convergenza di interessi con il suo grande nemico Perez. Tebas infatti comanda la Liga con mano ferma e con l’opposizione da anni di Real e Barcellona, ma è evidente che un passaggio di Mbappè avrebbe aiutato e non poco gli sforzi di marketing del torneo spagnolo dopo l’addio l’anno scorso di Lionel Messi.

Insomma un clima da tutti contro tutti che certo non testimonia della salute del calcio europeo. In tutto questo la UEFA nella sua affannosa e affannata ricerca di entrate, e incurante delle lamentele dei giocatori sul numero troppo alto di partite in stagione, lancerà dal 2024 un nuovo torneo di apertura della stagione negli Stati Uniti e la riforma della Supercoppa. Le novità hanno anche una base sportiva ma soprattutto economica. Non a caso il torneo si terrà negli Stati Uniti nel tentativo di “evengelizzare“ al  calcio il mercato sportivo più ricco nel mondo.

Basterà? La sensazione, anzi la quasi certezza è che si tratti solo di un pannicello di fronte a una patologia ben più grave e profonda.

In effetti guardando ai numeri economici del calcio europeo che Calcio e Finanza ha potuto verificare consultando svariate fonti, dal Report Calcio FIGC all’Annual Review of Football Finance di Deloitte, passando per il report LFP/DNCG della Ligue 1 e i dati OCSE, il quadro per il calcio della zona Ue non è roseo.

In Ue, i team aumentano i ricavi ma anche le perdite

Entrando nello specifico: il calcio, secondo i dati dell’UEFA, crea un valore aggiunto di 47-50 miliardi di euro per l’Unione Europea, di cui il 20% circa generato direttamente da club e federazioni nazionali. Un dato che vale circa il 25% dell’intero valore aggiunto del settore ricreativo della UE, oltre a generare – direttamente e indirettamente – 700.000 posti di lavoro nella Ue. Senza dimenticare, poi, il peso che il calcio ha sia in termini di interesse che come catalizzatore dell’identità europea.

A livello economico, poi, il calcio europeo dal 2010 al 2019 ha visto crescere il suo valore: i ricavi sono saliti del 7% annuo, con i diritti tv che hanno rappresentato oltre il 50% dell’aumento totale. Un aumento del fatturato che tuttavia non ha avuto impatto a livello di utili: anzi, i club europei hanno registrato perdite prima delle imposte complessive superiori a 4,5 miliardi di euro, con un peso rilevante della costante rincorsa ai migliori talenti. Basti pensare che gli stipendi dei giocatori rappresentano il 60% circa dei ricavi operativi, mentre in NBA oscillano tra il 40 e il 45%. Così a mettere mano al portafoglio, per compensare le perdite, sono state le proprietà, che hanno versato un miliardo di euro di capitale da versamenti e rifinanziamenti. E il FPF ha soltanto parzialmente allentato la pressione.

Il Covid-19 ha poi ulteriormente aggravato la situazione, con un calo dei ricavi dell’11% tra la stagione 2018/19 e la stagione 2019/20, costringendo alcune squadre e federazioni a perseguire opportunità di vendita dei ricavi futuri per attenuare i timori sui flussi di cassa attuali, come la partnership tra LaLiga e CVC, che concede a quest’ultima una quota pari all’8,25% dei diritti di televisivi e commerciali del campionato per i prossimi 50 anni, a fronte di un corrispettivo di 1,99 miliardi di euro.

La Premier League si sta mangiando il calcio Ue

In tutto questo, c’è pero chi sorride, ovvero la Premier League che guarda tutti dall’alto grazie a un predominio economico spinto dai diritti televisivi. Tanto che, in alcuni Paesi di medie dimensioni (come Croazia e Svezia), i diritti della Premier valgono già più di quelli del campionato nazionale e secondo gli esperti questa tendenza è destinata a durare erodendo sempre più nazioni europee. Nei fatti la Premier si sta mangiando boccone dopo boccone l’Europa del calcio in virtù di un dominio economico e sportivo rispetto alle squadre della Ue. E tutto questo nonostante in Inghilterra il mercato sia otto volte inferiore di quello della Ue in termini di popolazione e 7 volte più povero in termini di PIL.

In questo contesto per non perdere terreno dai club inglesi, alle altre società resta solo la leva della Champions League, che resta tuttavia una fonte di entrate imprevedibile (d’altronde non c’è certezza di partecipare sempre) creando volatilità economica e insostenibilità dei costi legati ai calciatori. Senza contare che in continente nei singoli Paesi la situazione è di campionati sempre più polarizzati: in Francia, Germania, Italia e Spagna il numero di club diversi che si aggiudicano il titolo è diminuito costantemente negli ultimi dieci anni.

In questo scenario, i pochi cambiamenti attuati come la nuova Champions League, non sembrano essere in grado di far fronte ai succitati nodi strategici: il problema del predominio della Premier League e della polarizzazione negli altri campionati nazionali. Anzi, sembrano studiati per addirittura peggiorare entrambe le situazioni, premiando nei fati i club più ricchi: quindi quelli inglesi su scala europea e quelli che partecipano alla Champions League su scala nazionale.

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Come uscire da questo empasse? Già un paio di mesi orsono questa rubrica aveva suggerito che l’unica soluzione potesse essere il varo di un progetto approfondito di un campionato della zona Ue. Aperto con retrocessioni e promozioni e che permetta ai grandi club di aumentare le entrate e di vendere un prodotto che ogni settimana vede sfidarsi potenze quali Juventus, Inter, Milan, Real Madrid, Ajax, Barcellona, Bayern Monaco e PSG.

Senza scordare la valenza politica di un eventuale nuovo torneo. In un momento in cui tra pandemia e la guerra in Ucraina la Ue ha bisogno di costruire un sentimento di identità attorno a sé c’è una cosa che lega tutti gli Europei – per quanto divisi tra l’anima germanica, slava, greca e latina del Vecchio continente, per quanto separati dalle diverse religioni di appartenenza o da un passato da Paesi nel blocco occidentale oppure in quello dell’ex Patto di Varsavia – è la passione per il calcio. Nulla come un torneo veramente continentale da giocarsi regolarmente e non negli spazi ora dedicati alle coppe unirebbe l’interesse dei vari popoli.

Ovviamente si tratta di un progetto di lungo periodo che per altro deve scontare il fatto che la proprietà dei club è sempre meno legata all’Europa (18 passaggi di proprietà a soggetti stranieri extra UE negli ultimi 5 anni, contro i 9 dei 15 anni precedenti) e che gli organi decisionali chiave hanno sede e sono di fatto governati dall’esterno della Ue. Organi decisionali in cui, tra l’altro, i club sono scarsamente rappresentati, nonostante facciano la parte del leone in quanto a costi e rischi. Ma soprattutto che esistono differenze significative nell’impianto normativo, senza che ci sia stato alcuno sforzo comune per favorire una convergenza. Non esiste, di fatto, un unico “standard europeo” a livello continentale: basti pensare ad esempio alla differenza tra la Bundesliga (con la regola del 50%+1) e le altre leghe in termini di proprietà, oppure al fatto che il FPF viene applicato solo nei confronti di chi partecipa alle coppe e non verso tutti i club.

L’Unione europea insomma dovrà presto decidere se stare ferma e assoggettare un percorso che senza prese di posizioni appare ineluttabile, ovvero una Premier League che diventa sempre più ricca, capace di attirare migliori giocatori, monopolizzando i successi e i ricavi derivanti dalla Champions League e quindi attirando anche maggiormente le nuove generazioni di tifosi, con il rischio che pure i campionati di maggiori dimensioni possano perdere progressivamente peso, seguendo potenzialmente lo stesso destino di Svezia e Croazia.

Oppure se intenderà muoversi sarà necessario un profondo ripensamento per garantire la sostenibilità a lungo termine del calcio Ue. 

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