L’ipotesi di considerare un taglio agli stipendi dei calciatori quale possibile strumento per contenere il danno economico causato dallo stravolgimento dei calendari per l’emergenza Coronavirus si sta facendo sempre più largo.
Coronavirus: tagliare stipendi calciatori è giusto?
Come anticipato da Calcio e Finanza nei giorni scorsi, già alcuni club infatti hanno avviato concrete valutazioni sul tema, in modo da poterne discuterne con coscienza di causa nei prossimi giorni, quando entrerà nel vivo il lavoro dei tavoli tecnici istituiti dalla Lega di Serie A.
E ora la partita sembra entrata nel vivo. Martedì 17 marzo è infatti andata in scena un primo confronto tra le parti, a cui erano presenti per i club Lotito (Lazio), Giulini (Cagliari), Marino (Atalanta), oltre a tecnici e legali delle società, all’ad della Lega Serie A De Siervo e all’Assocalciatori.
Ma il taglio degli stipendi dei calciatori, siano campioni superpagati, come Cristiano Ronaldo o Romelu Lukaku, o professionisti delle serie inferiori con retribuzioni di gran lunga inferiori, è possibile da un punto di vista legale e contrattuale?
Calcio e Finanza lo ha chiesto agli avvocati di Osborne Clarke, studio legale internazionale che, grazie anche all’ingresso tra i partner di Pier Filippo Capello e Andrea Bozza, è ormai da qualche anno uno degli studi più attivi nel campo dello sport business (tra le operazioni seguite di recente i passaggi di Lukaku e Moses all’Inter, l’accordo di testimonial di Bobo Vieri per Gillette).
Taglio degli stipendi dei calciatori, il punto di vista di Osborne Clarke
Il rapporto tra i calciatori professionisti e le società è regolato sia dal punto di vista del diritto ordinario, sia da quello del diritto dello sport.
Per quanto attiene a questo secondo profilo, i principali riferimenti sono da rintracciarsi nelle “Carte Federali”, cioè il compendio di tutte le norme e i regolamenti prodotti dalla Federazione, e negli “Accordi Collettivi” sottoscritti dalle parti interessate. In particolare, in Italia abbiamo tre differenti Accordi Collettivi conclusi dalla FIGC, dalla Associazione Italiana Calciatori come rappresentante della categoria e, rispettivamente, dalla Lega Serie A, dalla Lega Serie B e dalla Lega Pro.
Come principio generale, possiamo sostenere che le questioni relative ai rapporti tra il calciatore e il datore di lavoro debbano essere risolte tenendo come primo riferimento la normativa regolamentare sportiva e i citati Accordi Collettivi e, solo nel caso in cui queste fonti non fossero in grado di fornire gli strumenti giuridici necessari, la legislazione giuslavoristica ordinaria.
Nel caso di specie, tuttavia, possiamo affermare che né gli Accordi Collettivi né le Carte Federali forniscono strumenti idonei a gestire una situazione complessa come quella attuale. Infatti, tra le poche disposizioni applicabili, c’è l’art. 18 dell’Accordo Collettivo per la Serie A (“riposo settimanale e ferie”), che si limita a prevedere che le società di calcio possano decidere quale sia il periodo di godimento delle 4 settimane di ferie che spettano al calciatore.
Laddove le parti non fossero in grado di trovare un accordo, anche in deroga alle disposizioni e ai contratti vigenti, sarà allora necessario fare riferimento alla legislazione ordinaria.
In tale caso, sul piano puramente teorico e come extrema ratio, non si potrebbe escludere a priori l’applicabilità del c.d. factum principis quale causa di impossibilità incolpevole della prestazione da parte del datore di lavoro/club, con ricadute sul piano della continuità del rapporto e del conseguente obbligo retributivo. Si tratterebbe in ogni caso di uno scenario particolarmente grave e da scongiurare con l’intervento delle istituzioni competenti.
[Alla riposte dello studio Osborne Clarke alle domande di Calcio e Finanza hanno contribuito gli avvocati Andrea Bozza, Pierfilippo Capello, Riccardo Roversi, Federico Banti, Federico Ferrara, Angelo Molinaro e Stefano Lava].