Una delle modalità utilizzate dalla società per la vendita del merchandising sono i negozi sparsi nelle varie zone del territorio, ma non tutto all’interno di questi luoghi sembra svolgersi con regolarità. Come rivela FutbolFinanzas.com, infatti, numerosi club sfrutterebbero i lavoratori in vari settori senza troppe remore.
Recentemente un caso di questo tipo è venuto alla luce e non può essere sottovalutato. A essere coinvolto è un dipendente di un negozio ufficiale dell’Arsenal, che ha voluto rivelare le difficili condizioni di lavoro che è costretto a sopportare quotidianamente: “Guadagno 7,2 libbre per 37,5 ore di lavoro a settimana. Lo stipendio complessivo è di 1.040 sterline l’anno“. Diventa quindi quasi inevitabile fare un confronto con gli ingaggi esorbitanti ottenuti dalla maggior parte dei calciatori.
Non si tratta comunque di un allarme del tutto nuovo. Qualche tempo fa era stato lanciato un allarme simile in riferimento all’organizzazione dei Mondiali del 2022 che si terranno in Qatar. Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, era stato uno dei primi a denunciare la situazione: “L’abuso dei lavoratori è una macchia sulla coscienza del calcio mondiale. Per i giocatori e gli appassionati un palcoscenico come quello della Coppa del Mondo rappresenta un posto per sognare, ma per alcune persone che hanno parlato con noi si è trasformato in un vero incubo”.
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Lo sfruttamento dei lavoratori dello sport è un problema emerso anche pochi mesi fa, in concomitanza con l’organizzazione di Euro 2016 che si è svolto in Francia. Un dossier realizzato dai media francesi, infatti, aveva messo in evidenza il forte disequilibrio fra gli investimenti in marketing e comunicazione e le paghe dei lavoratori alla base della filiera che produce i capi sportivi più diffusi del pianeta. Ad essere accusate di questo comportamento sono state due aziende top in ambito sportivo come Nike e Adidas.
I giornalisti del sito di informazione indipendente Basta! avevano così sottolineato come il guidagno dell’operaio vietnamita di Nike sia di molto inferiore al salario vitale o di sussistenza, adatto a soddisfare bisogni primari come alloggio, energia, acqua potabile, alimentazione, vestiario, salute e istruzione. Proprio l’idea di poter avere i propri prodotti pagando in modo risibile i lavoratori ha spinto numerose aziende sportive a delocalizzare la produzione in Cina e altri Paesi vicini come Birmania, Vietnam, Indonesia e Cambogia. Adidas sta provando almeno in parte a modificare questo modo di agire dopo 30 anni di delocalizzazioni lasicando spazio ai robot in fabbrica.