Tutti i dubbi sull'introduzione delle seconde squadre in Italia

Nei giorni scorsi Demetrio Albertini in una lunga intervista su Tuttosport ha snocciolato tutti gli ipotetici vantaggi che il calcio italiano avrebbe nell’adottare il sistema delle seconde squadre, anche…

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Nei giorni scorsi Demetrio Albertini in una lunga intervista su Tuttosport ha snocciolato tutti gli ipotetici vantaggi che il calcio italiano avrebbe nell’adottare il sistema delle seconde squadre, anche in seguito all’apertura del nuovo presidente della Serie C, Gabriele Gravina.

Le posizioni di Albertini non sono nuove ed esprimono sostanzialmente quello che lo stesso ex candidato alla presidenza federale disse nel suo programma durante la sfida, poi persa, con Carlo Tavecchio.

Tra le altre cose l’idea di Albertini, nell’intervista di Tuttosport, viene messa in contrapposizione con quella di Claudio Lotito (sostenitore delle multproprietà, lui che controlla Lazio e Salernitana). Sul quale Albertini afferma: “Dobbiamo chiedergli se abbia lo stesso obiettivo di crescita generale del calcio” e ancora: “La sua è una finalità imprenditoriale e amministrativa. Lotito ragiona da imprenditore, non per l’interesse del calcio. Sono visioni differenti”.

Molto facile, in questi casi, essere spinti – più o meno volontariamente – a schierarsi dall’una o dall’altra parte.

Proviamo invece, dandoci come unico principio di riferimento la sportività e competitività complessiva del sistema calcio, ad avanzare qualche dubbio sull’introduzione delle seconde squadre nelle categorie inferiori alla Serie A.

Partendo da un presupposto: il sistema attuale delle multiproprietà, evidentemente dettato da interessi congiunturali e particolari, è di certo peggiore delle seconde squadre proprio per i motivi di sportività e competitività appena detti.

Lo stesso Albertini del resto non è un “indipendente” calato dall’alto: fa riferimento ad una precisa parte del panorama dei club italiani, in un cartello al momento minoritario che vede come capofila la Juventus.

Innanzitutto è bene precisare. Di cosa parliamo quando parliamo di seconde squadre? Spagna, Germania e Inghilterra adottano tre sistemi diversi che vengono forzatamente assimilati ma che sono – sul piano sportivo e degli esiti competitivi – estremamente diversi.

In Spagna le seconde squadre fanno classifica. In Germania no. Una discriminante non di poco conto. In Inghilterra giocano un campionato a parte.

Cosa sarebbe dei campionati minori se le seconde squadre facessero classifica? Come negare che la loro introduzione toglie spazio alle realtà di provincia proprio nel risultato (la promozione) a cui tutti devono puntare per questioni di valorizzazione economica nel breve o nel mediobreve periodo?

E se invece le seconde squadre non facessero classfiica? Davvero si pensa che in Italia, terra del risultato a tutti i costi, in cui anche le Coppe nazionali (non solo quella di A ma anche la Coppa Italia di C) sono snobbate fino ai turni decisivi, sia produttivo allevare giocatori in una squadra i cui risultati sarebbero solamente “virtuali” ai fini della classifica? E come si porrebbero gli avversari nei loro confronti sapendo che le partite contro le squadre B sarebbero delle pure amichevoli? Facile immaginare riposi “scientifici” in vista di incontri più probanti e decisivi per la classifica.

Diverso sarebbe un campionato Under 23 sul modello dell’Elite Development System inglese. Ma stiamo parlando di un’altra cosa, che non andrebbe in alcun modo a “sporcare” la piramide competitiva del calcio nazionale.

Quando la FA inglese un paio d’anni fa dopo il flop mondiale propose l’introduzione delle seconde squadre alla spagnola o alla tedesca, l’alzata di scudi fu immediata da parte dei club minori e si lasciò perdere.

E stiamo parlando di un Paese in cui i rapporti trasversali (prestiti, o comproprietà più o meno velate) tra club – soprattutto nella stessa Lega – sono di fatto inesistenti se paragonati all’Italia.

Non convince, Albertini, quando richiama alla retorica della valorizzazione dei giocatori nazionali citando i bei tempi andati degli anni ’90.

Sembra non sapere, Albertini, che negli anni ’90 a funzionare era il fatto che i nostri club spendevano più degli altri perchè retti da un mecenatismo importatore che gli altri conoscevano solo in misura minore a noi.

A parità di condizione, in squadre europee fatte per 8/11 da calciatori nazionali, i giovani calciatori italiani crescevano accanto ai migliori giocatori mondiali: ad esempio, nel 1994 il Brescia venne promosso dalla B alla A schierando Hagi e Sabau due giocatori chiave della nazionale romena che sarebbe arrivata nei quarti di finale a USA 94 (come se nel 2014, per dire, James Rodriguez e Guarin in un mercato diverso fossero stati in B a giocarsi la promozione). Il tutto in un mercato verticale nazionale, non orizzontale e internazionale come quello creatosi nel dopo-Bosman.

Vero è – e qui ha ragione l’ex playmaker del Milan – che finora le regole imposte hanno fallito, e che i giovani “sono tesserati da società di Lega Pro che li bloccano solo per un anno perché hanno la “classe di età giusta”. Questi ragazzi diventano un mezzo per intascare i contributi e non un valore per il nostro calcio: un argomento che si può allargare a tutte le categorie dilettantistiche.

Ma la meritocrazia è come la perfezione, è un obiettivo sempre perfettibile e mai raggiungibile. E’ un fine, non un mezzo.

Albertini ragiona da politico puro (e sembra non avere il calcio giocato come priorità) quando dice che “i club “esterni” non toglierebbero spazio agli altri perchè non avrebbero diritto di voto”. Una priorità lobbistica, un elemento di trattativa spacciato per concessione o rinuncia, che nella sua testa sembra prioritaria rispetto alla preoccupazione del tifoso che non pensa alla conduzione delle Assemblee di Lega ma al tipo di competitività che verrà riportata sul campo.

Anche quando afferma che chi blocca le seconde squadre non ha interesse per la crescita del calcio italiano e del mercato interno, Albertini andrebbe ulteriormente interrogato: di che mercato interno parla?

Il mercato italiano ha mosso nell’ultimo anno (dati transfermarkt.it) 1411 giocatori in entrata e 944 giocatori in uscita. Un bilancio che fa impallidire Premier League (588/565), Liga Spagnola (424/382) e Bundesliga (327/261). Dati che sembrano dire che in Italia si opera sul mercato per fini che non sono prioriariamente quelli tecnico tattici della composizione di una rosa. 

Solo in Italia? Probabilmente no, ma in Italia, evidentemente, molto più che altrove.

Vuole forse dirci che se la Juventus avesse una seconda squadra in Serie C rinuncerebbe a far crescere – in maniera del tutto legale, sia chiaro – Domenico Berardi e Simone Zaza nel Sassuolo, o chi per lui, in Serie A?

E’ forse pronto, Albertini, a proporre ai grandi club uno scambio: seconde squadre in cambio di un blocco reale delle rose ovvero svincolo obbligatorio dei giocatori in eccesso rispetto ai 24 della rosa della prima squadra e dei 20-22 (under 23) della seconda?

Questa sì che sarebbe una bella novità, una reale spinta all’investimento sulla valorizzazione.

Perchè fino a che i grandi club potranno serenamente controllare – in maniera del tutto legale, sia ben chiaro – decine e decine (fino a centinaia) di giocatori la finalità di crescita tecnica del singolo giocatore sarà sempre secondaria rispetto alla valorizzazione dell’attività patrimoniale del club, ovvero ciò che questa pletora di giocatori realmente rappresenta a fini contabilistici.

Infine, quando si evoca il fatto che la nazionale italiana ha una media di età (27,9 anni) superiore a quella delle altre, non ci si può dimenticare che questo è storicamente così: i campioni del mondo 2006 avevano 28,72 anni in media (uno in più degli azzurri attuali) ma non sembra essere questa la differenza tra ieri e oggi che più deve preoccupare. I campioni del mondo dell’82 avevano la stessa età della nazionale di Conte: 27,71 anni (ma allora la retorica giovanilista non faceva breccia) e solo con la prima nazionale di Vicini – quella del ricambio generazionale di massa – si scese sotto i 26 anni medi di età.

La Nazionale deve essere un obiettivo da conquistare e consolidare, non un premio di buona condotta. Quando è diventato così (vedi gestione Cesare Prandelli) abbiamo visto come è andata a finire.

Viene il dubbio che la scarsa valorizzazione dei giovani da parte dei club italiani sia un problema extracalcistico (di un Paese che in generale non è troppo propenso a lanciare spartanamente i giovani nella mischia a loro rischio e pericolo) e che, riferendosi invece al puro fatto calcistico, sia molto più facile (come accadeva nei nostri club degli anni ’90 e accade oggi nei top club europei) lanciare qualche giovanotto in più a fianco dei “dodici top player che siedono in prima fila al Pallone d’oro” (citazione dallo stesso Albertini) anzichè in squadre che – pur con un alto valore della rosa – hanno perso la loro egemonia europea e si ritrovano ora a rincorrere.

Ai grandi giocatori non ci si arriva perchè si sta ai vertici del ranking, ma viceversa: si arriva ai vertici del ranking quando si ha la possibilità di prendere i migliori. 

E sostenere che questi siano tutti allevabili nella serie C italiana è quantomeno curioso. A meno che il fine non sia un altro, ad esempio quello di patrimonializzare ulteriormente i maggiori club.